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alpi-hrovatin-webDiciotto anni fa Alpi e Hrovatin assassinati in un agguato a Mogadiscio
di Roberto Scardova - 23 marzo 2012
Inchieste depistate, commissioni parlamentari inconcludenti. Quella verità va cercata e scritta, con pazienza e per amore delle vittime


Come sarebbe finita, in Somalia, Ilaria Alpi aveva cercato di farcelo capire sin dai primi reportage realizzati per il Tg3. La sua sensibilità di giornalista e di donna aveva colto negli occhi dei somali la speranza svanita. Attorno a lei lo scandalo di un Paese che gli occidentali avevano spremuto e sfruttato, trasformato in una discarica avvelenata. Ed ora stavano per abbandonarlo a se stesso, ai macellai delle bande guerrigliere, al tormento dei profughi, alla fame, alla sete.
Tutto ciò che una giornalista poteva fare era raccontarcelo, e mettere tutti noi – gli italiani – di fronte alle nostre responsabilità. Ilaria lo volle fare. Per questo aveva chiesto che la Rai le concedesse quell’ultima trasferta in Somalia, prima che il ritiro delle truppe italiane ed americane facesse del Paese terra bruciata, inferno proibito agli inviati di giornali o televisioni. La accompagnò un operatore di Trieste, Miran Hrovatin. Un “privato”, che il conflitto spietato nella ex Jugoslavia aveva reso esperto di guerre e guerriglie. Erano insieme, quel 20 marzo di diciotto anni fa, quando la loro auto fu bloccata nel centro di Mogadiscio e un commando di miliziani li assassinò con fredda determinazione.
Un colpo alla testa di Miran, un colpo alla testa di Ilaria. Una esecuzione. Gli assassini avevano atteso da ore sul posto, sotto il sole. Non s’erano mai allontanati dal punto dell’agguato, nei pressi dell’hotel Hamana, ad appena duecento metri dalla ex ambasciata italiana ancora presidiata dai nostri militari. Si mossero soltanto all’arrivo della Toyota di Ilaria e Miran. Quella che avevano atteso. Ilaria e Miran non avrebbero dovuto essere lì. Il loro albergo era da un’altra parte: qualcuno chiamò Ilaria al telefono o con la radio trasmittente, e la convocò, obbligandola ad attraversare una Mogadiscio ormai senza controllo e vigilanza da parte delle forza Onu.
Chi chiamò Ilaria? Perché?
Avrebbero dovuto accertarlo le inchieste della magistratura, o la apposita commissione parlamentare che fu inutilmente presieduta dal professor Carlo Taormina. In realtà inchieste giudiziarie sul posto non sono state condotte, i nostri militari allora a Mogadiscio non hanno interrogato nessun testimone, e quelli che si sono presentati in Italia sono risultati inaffidabili, o mendaci. Depistanti le informazioni fornite dagli uomini dei servizi segreti, che pure seguivano Ilaria passo passo. E la commissione parlamentare ha finito per accreditare come fonte principale proprio quel personaggio, l’italiano Giancarlo Marocchino, che un rapporto delle superstiti autorità di polizia somala avevano indicato come il primo dei sospetti.
La verità sull’assassinio di Ilaria e Miran non l’ha voluta nessuno. Ci si è accontentati della condanna di un somalo, Omar Haschi Assan, che la stessa Corte d’assise di Roma ha considerato <>. Il quale oggi attende si faccia luce – il processo è in corso – sui retroscena della falsa testimonianza che lo ha inchiodato come unico assassino. L’inchiesta, allora, l’hanno condotta Luciana e Giorgio Alpi, i genitori di Ilaria; e con loro i colleghi del Tg3 e di Famiglia Cristiana, l’onorevole Mariangela Gritta Grainer, l’avvocato Domenico d’Amati. Coi mezzi forniti dalla tenacia e dalla pazienza. Così abbiamo saputo che Ilaria s’era dedicata a documentare l’esistenza di traffici immondi di armi e rifiuti tra l’Italia e la Somalia. Aveva raccolto le testimonianze delle donne somale, preoccupate per le strane malattie che infierivano sui loro figli, e riempivano di piaghe gambe e braccia dei pescatori. Il bestiame moriva, e si parlava di navi che scaricavano barili e container pieni di sostanze sconosciute.
Ilaria andò al nord, a Bosaaso, ed intervistò la principale autorità di quella regione, il sultano Mussa Bogor. Gli chiese se sapeva di navi che portavano armi destinate alle fazioni in guerra, e veleni gettati in mare, o sepolti nelle sabbie lungo i fiumi, o sotto l’asfalto di una strada costruita dagli italiani. Il sultano rispose che sì, i suoi uomini gli avevano riferito di navi che portavano armi ai ribelli, navi che venivano dall’Italia,e dai porti dalla ex Jugoslavia. E anche a lui era stato detto che sostanze tossiche erano state portate e sepolte nel deserto o lungo le spiagge.
Con questa intervista, e con le immagini girate da Miran nei posti indicati (i fiumi, la strada, le spiagge) Ilaria si apprestava a tonare in Italia. Ma iniziò una strana serie di imprevisti. L’aereo Onu che doveva riportarla da Bosaaso a Mogadiscio non c’era più. Dovette attendere tre giorni il passaggio successivo. Una volta a Mogadiscio l’autista non era ad attenderla. Per tornare all’albergo fu costretta ad approfittare di un’altra macchina: una macchina di una qualche autorità italiana rimasta sconosciuta, importante se è vero che fu ignorata dai militari statunitensi che pure annotavano i nomi di chiunque entrasse nell’aeroporto, considerato territorio americano. Appena entrata nel suo albergo, il Sahafi, Ilaria chiamò al telefono la madre, Luciana. Le disse che sperava di rimanere ancora qualche giorno, per completare il lavoro. Poi qualcuno la chiamò. Con Miran corse verso l’ambasciata italiana, verso l’agguato.
Molti punti della vicenda rimangono oscuri. Altri si sono chiariti. Sono state portate alla luce le informative dei servizi segreti che in quegli anni, e ancora in quelli successivi, testimoniano dell’esistenza di traffici di sostanze tossiche, anche nucleari, dall’Italia verso la Somalia ed altri Paesi africani. Si è ritrovato un rapporto Onu che descrive un traffico di armi dalla Lituania all’Italia, e di qui via nave alla Somalia. I magistrati di Asti hanno raccolto intercettazioni su progetti per spedire in Somalia migliaia di fusti di rifiuti radioattivi. I pentiti di camorra hanno parlato delle carrette del mare, navi cariche di rifiuti ed affondate nel Mediterraneo, e nel mare di Somalia. La Digos di Udine, infine, ha raccolto testimonianze secondo le quali l’assassinio di Ilaria e Miran  fu deciso in una riunione presso un importante ufficio di Mogadiscio, presenti autorevoli personaggi somali e italiani, dopo una telefonata pervenuta dall’Italia. Tutto questo è stato ignorato dalla commissione parlamentare. Nessun rilievo neppure alla testimonianza del sultano di Bosaaso, venuto a confermare che Ilaria lo intervistò proprio sui traffici di armi e rifiuti tra Italia e Somalia. Né la commissione né i magistrati romani si sono chiesti come mai, nelle videocassette girate da Miran e riconsegnate al Tg3, dall’intervista di Ilaria al sultano siano scomparse proprio le domande e le risposte relative ad armi e rifiuti. E di quale sorte abbiano avuto i taccuini sui quali Ilaria appuntava ogni momento dell’attività giornalistica. Inutili dettagli, secondo Taormina: per lui Ilaria e Miran erano in Somalia in vacanza, a prendere il sole.
Il padre di Ilaria è scomparso, ormai due anni fa, senza avere il conforto della verità. In una delle ultime interviste rilasciate al Tg3, Giorgio Alpi si diceva certo che la verità un giorno l’avremmo saputa. Sull’agguato di Mogadiscio, e su tante altre vicende che hanno tormentato l’Italia. C’è un filo nero – disse Giorgio – che unisce la morte di mia figlia e le stragi fasciste, la mafia, la criminalità e la corruzione. Un filo nero che si può con pazienza dipanare: con pazienza, e con tanto amore per le sue vittime.

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