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dellutri-marcello-big2E a farne le spese è la legge uguale per tutti
di Monica Centofante - 13 marzo 2012
Qualche giorno fa, ad un congresso del Pdl, Nicola Cosentino esultava: “Il reato di concorso esterno in associazione camorristica ormai non esiste più”. E “ora si capirà che non esiste neanche per me”, che per quel reato è imputato davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Che per quel reato ha sulle spalle  due pesantissime ordinanze di custodia cautelare, non eseguite soltanto per l'opposizione della Camera di appartenenza.

"Dopo Dell´Utri cambia tutto", aveva proseguito, mentre il senatore e commissario campano del Pdl Nitto Palma attaccava il procuratore di Napoli Alessandro Pennasilico, colpevole di aver denunciato le infiltrazioni in politica, ma “farebbe meglio a star zitto”. E in platea applaudivano il senatore Nespoli, indagato per bancarotta e riciclaggio di denaro sporco; il presidente della Provincia Luigi Cesaro, indagato in due inchieste del pool anticamorra e una serie di sindaci sui quali pesa il sospetto che in un modo o nell'altro abbiano avuto a che fare con la criminalità organizzata campana.
Dopo Dell'Utri cambia tutto. Come dire: “Salvarne uno per salvarci tutti” ed è così evidente l'arroganza del potere che protegge se stesso che altre parole sono perfino superflue. Tutto normale nell'Italia delle P2, delle P3, delle P4, dove le cricche dei soliti noti gestiscono affari e nomine, inserendo preventivamente i loro cavalli di troia in ogni “posto di comando”, per garantirsi affari e impunità.
Come non pensarci di fronte alle parole del sostituto procuratore generale della Cassazione Iacoviello, che venerdì scorso, davanti alla V sezione della Suprema Corte, non si è limitato a fare ciò che il suo ruolo richiede: proporre l'accoglimento o il rigetto dei ricorsi contro una sentenza d'appello; ma si è spinto oltre, molto oltre. Ridicolizzando un istituto giuridico, esprimendo giudizi inopportuni, infondati, estremamente gravi, nel totale silenzio del Consiglio Superiore della Magistratura, solo l'altro ieri così intransigente con il collega Antonio Ingroia, punito per essersi definito “partigiano della Costituzione”.
“Al concorso esterno ormai non crede più nessuno”, ha detto Jacoviello, un assist ad avvocati e libellisti, un colpo di spugna alle decine di condanne definitive contro i cosiddetti colletti bianchi e ai processi e alle tante indagini in corso per quello stesso capo d'imputazione. Quelle contro il presidente del Senato Renato Schifani, per esempio, o per l'ex ministro Saverio Romano. Parole, ha denunciato il sostituto procuratore a Palermo Nino Di Matteo, nel corso della presentazione del libro “La Colpa” di Nicola Tranfaglia e Anna Petrozzi, che nella lotta alla mafia riporterebbero le lancette del tempo indietro a 30 anni fa. A prima di  Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che per primi avevano applicato quello strumento giuridico. “Arma fondamentale per reprimere il male delle collusioni  tra la mafia, l'imprenditoria, la politica e le istituzioni. L'unico strumento che permetterebbe il vero e definitivo salto di qualità nel contrasto alla criminalità organizzata. A meno che non ci si voglia convincere che la lotta alla mafia sia solo la repressione degli aspetti militari e non la lotta contro ben più gravi forme di collusione”.
Ed è proprio questo il punto. “Il problema qui non è il reato, ma l'imputato – ha commentato Antonio Ingroia a La Stampa -. Certo tipo di imputati. Quando si toccano i potenti, vedo che le polemiche tornano incandescenti”.
E questa volta, rispetto alle precedenti, c'è qualcosa di profondamente diverso. Il tiro si è alzato e il colpo potrebbe essere definitivo. Per questo c'è tutto un fermento, una corsa a rilasciare più dichiarazioni possibili, a far passare per assoluzione una sentenza di rinvio a nuovo processo. Tanto che il legale di Bruno Contrada, l'ex numero 3 del Sisde condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, ha già presentato un nuovo ricorso alla Cassazione, chiedendo che per il suo assistito valgano gli stessi principi adottati per Dell'Utri.
E il colpo definitivo, ora, non sarebbe un problema di amministrazione della giustizia. Non siamo di fronte a pure disquisizioni giuridiche, come si vorrebbe farle passare, questa volta ne va della nostra stessa libertà. Della spallata finale al principio di uguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge, che nella vita di ogni giorno si traduce in sopraffazioni, ingiustizie, violenze dei più forti contro i più deboli.
“La zona grigia – ha ricordato il giudice Giancarlo Caselli – è la spina dorsale del potere mafioso”. Se elimineremo la possibilità di individuare e punire i rappresentanti di quell'area grigia quella spina dorsale sarà più dritta, sarà più forte e noi a chi ci appelleremo se sarà la stessa legge a tutelare i loro interessi? Che si oppongono agli interessi di noi cittadini.
E' per questo che è diventata decisiva la sentenza Dell'Utri: perché se quel concetto passerà non sarà solo Dell'Utri a beneficiarne, ma un'intera classe di potere, che avrà finalmente campo libero e potrà muoversi indisturbata in ogni direzione.
“Quando ho sentito la sentenza della Corte di Cassazione su Dell'Utri”, ha scritto Salvatore Borsellino, il fratello del giudice assassinato nel 1992 da Cosa Nostra e da soggetti esterni alla mafia, “mi è mancato il respiro”, “mi si è fermato il cuore. Dopo la sentenza sull’Agenda Rossa non posso accettare anche questo, non può essere negata a tal modo la Giustizia. Ricordatevi dell‘intervista a Paolo su Dell’Utri”. Una delle tante prove riportate nella sentenza di primo grado che ha condannato il senatore a 9 anni di reclusione. Con una mole di dati tanto impressionante che i pubblici ministeri, nella loro requisitoria, avevano dovuto ometterne molti “per crisi di abbondanza”.
Era il 2004. Dopo quasi 6 anni, nel giugno del 2010, i giudici d'appello avevano ridotto la pena a 7 anni, ma nel documento che motivava la loro decisione c'era un'importante conferma al giudizio di primo grado. Fatti, tanti e gravi, che rimarranno scolpiti nella pietra poiché una corte di Cassazione, incaricata solo di esprimere un giudizio di legittimità, non potrà mai cancellare.
Ora quegli stessi fatti saranno riesaminati da altri giudici e dopo una nuova sentenza d'appello torneranno, quasi certamente, in Cassazione. A meno che nel frattempo non intervenga la prescrizione, fissata nel 2014.
Tecnicamente i tempi ci sarebbero, così come ci sono le prove del “delitto”. L'unica cosa che sembra mancare è la volontà di fare chiarezza. Cicero pro domo loro.

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