di Maria Elena Manenti - 28 gennaio 2012
Palermo. Ieri pomeriggio, presso la facoltà di Giurisprudenza di Palermo, il sostituto procuratore Nino Di Matteo e il giornalista RAI Loris Mazzetti hanno presentato il loro libro “Assedio alla toga”. Durante il dibattito sono intervenuti il preside di facoltà A. Scaglione, il prof. G. Di Chiara, docente di procedura penale ed in veste di moderatore, il giornalista de L’ Unità Nicola Biondo.
“Un uomo buono, intelligente e di rara sensibilità”: queste le parole con cui Nicola Biondo, nel suo intervento iniziale, definisce il pm Nino Di Matteo, soffermandosi con ammirazione sulle sue straordinarie qualità umane e professionali. Un uomo che ha avuto l’onore di avere dei maestri come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, un uomo che ne ha viste tante nei suoi vent’anni di carriera, ma che non si è mai arreso. Una domanda, infatti, sorge spontanea al giovane giornalista: “Come si fa a non farsi cambiare da una città come questa?”
Il non cambiare e il rimanere saldamente attaccati ai propri principi è una cosa naturale per chi, come lui, ama profondamente la sua terra e svolge un lavoro che ha sempre desiderato fare, con la stessa passione e determinazione di quando ha iniziato. Il dott. Di Matteo spiega l’amore e l’impegno civile che ripone nel suo ruolo di magistrato, in una realtà dove il male e il bene si confrontano ad alti livelli. Il suo stimolo più grande per andare avanti lo trova ogni giorno nei volti dei tanti giovani e dei cittadini che pretendono e desiderano una società migliore, più giusta, più vera. Gente che dice basta alla piaga della mafia, dell’illegalità e della corruzione. Perché la lotta alla criminalità organizzata non è una lotta che i magistrati combattono da soli nelle aule di tribunale, ma insieme ai cittadini. “E’ solo da una rivoluzione culturale che parta dai giovani, che le cose possono cambiare”, afferma Di Matteo,” i magistrati non devono stare sopra un piedistallo, ma interagire col cittadino spiegando il proprio lavoro,facendo capire il pericolo di riforme antidemocratiche per combatterle insieme”.
Non si è mai posto il problema di poter essere cambiato da questa città, nonostante le difficoltà del suo lavoro e le tante sfide da affrontare. Preferisce, invece, pensare alla responsabilità indissolubile che lo lega alle vittime innocenti, ai volti dei familiari dei caduti che confidano nella giustizia e pretendono verità. Quella di Nino Di Matteo è una commuovente dichiarazione di lealtà e amore per un lavoro che dà, a chi lo svolge con dovere e responsabilità, la possibilità di rendere un servizio alla società e soprattutto ai più deboli.
Prende successivamente la parola il giornalista Mazzetti, il quale esponendo la sua visione sull’incisivo cambiamento sociale verificatosi negl’ultimi anni, porta a galla il nodo cruciale della questione, ovvero, l’importante ruolo che il giornalismo ricopre nella mediazione sociale tra istituzioni e cittadini, ma dal quale, purtroppo, ha abdicato. Il magistrato oggi è molto solo, perché chi lo dovrebbe sostenere si occupa di tanti altri fatti di cronaca meno rilevanti . La mafia, i suoi crimini e processi in corso ormai non fanno più notizia. Paradossalmente si può dire, afferma Mazzetti, che ai tempi di Falcone e Borsellino c’era più informazione, poiché i riflettori erano costantemente puntati sugl’eventi di mafia che colpivano il paese e ciò contribuiva a creare un pubblico più consapevole e cosciente di quello d’oggi. Non ci sono più quei tipi di inchieste in grado di svelare verità nascoste, di portare alla luce quella fitta rete di poteri occulti che nel silenzio trama contro lo Stato o in esso si insidia. Quel tipo di giornalismo non esiste quasi più. Chi lotta contro il sistema viene isolato o fatto tacere con le potenti armi di “distrazione di massa”, che coprono prepotenti le voci dissonanti e distolgono il popolo da ciò che è davvero importante.
Nella seconda parte del dibattito interviene il preside Scaglione, il quale ribadisce il forte impegno civile del libro e la straordinaria abilità avuta dal magistrato nel rendere comprensibile ed accessibile a tutti un argomento così tecnico. Riprende alcune importanti tematiche come l’art. 112, 109 e la drammatica realtà a cui condurrebbe il processo breve, concludendo con l’ auspicio che tutti questi disegni di legge rimangano su un binario morto e avvenga un significativo mutamento del quadro istituzionale.
Il prof. Di Chiara invece, risponde con grande coinvolgimento alla domanda che riguarda il “come spiegare a chi studia diritto, lo scempio che molte leggi attuano legalizzando ciò che prima era illegale”, leggi al servizio del potente di turno. Come spiegare agli studenti il perché vengono loro insegnati valori e principi che nella pratica quotidiana della loro società non vengono attuati o peggio, violati. “Rispondere a questa domanda significa chiedersi cos’ è il diritto, che credibilità ha oggi il nostro paese”,spiega Di Chiara. Questo libro, infatti, ha una struttura che presuppone nella sua essenza più alta il che cos’è il diritto. In ogni pagina, in ogni riga traspare il senso della lotta per la giustizia , il senso del dovere e della lealtà.
Individua il cuore pulsante del libro nell’ “urgenza del dire”, nell’esigenza di parlare, di spiegare al cittadino la verità della realtà in cui si trova e in cui rischia di trovarsi. “Chi non avverte questa urgenza è fatalmente complice “. Oltre al ‘dire’ però, si avverte anche l’ urgenza del ‘dover fare’, di cui tanto parlava Falcone. Il magistrato si trova a vivere una posizione privilegiata perché applica il diritto e lo rende vivo, è portatore di un sapere tecnocratico che si realizza nell’ impegno civile. Impegno, che il vice procuratore Di Matteo ha affrontato con grande spirito di lealtà.
Di Chiara, paragonando lo stile del libro allo stile del dialogo platonico, cita alcune parti del secondo capitolo: “Noi siamo magistrati del pubblico ministero, dobbiamo essere, ancor prima dei nostri colleghi, autonomi e indipendenti e ricercare la verità qualunque essa sia …”
La ricerca della verità, dunque, deve essere l’obiettivo primario, perché il diritto non è mai fine a se stesso, ma è in funzione della giustizia e in garanzia del più debole, così che si possa parlare di diritto morale. Tra le righe del libro, afferma il professore, può essere letta una frase: ” Nonostante tutto, questa è terra di speranza” e prosegue leggendo un commuovente saggio di una studentessa di giurisprudenza che parla proprio della speranza di un futuro migliore, che non cesserà finché ci saranno uomini, eroi, pronti a lottare e a credere nella giustizia.
Riferendosi alla trattativa, il giornalista Nicola Biondo rivolge al dott. Di Matteo una domanda molto forte ed incisiva: “Come può un gruppo ristretto di persone tenere in scacco un intero paese?”
Entrando nel vivo della problematica della degenerazione democratica che sta vivendo il nostro paese, Di Matteo, fa presente che la questione si concentra su un unico punto: l’esistenza di un potere parallelo, occulto, che si contrappone al potere ufficiale. Un potere illegittimo che esercita tacitamente al di fuori dei luoghi delegati dalla Costituzione. In tali circostanze, la vera sfida democratica è quella di riportare l’unità dell’ esercizio del potere nelle istituzioni. La lotta alla mafia, è una lotta che va combattuta sul campo delle infiltrazioni mafiose nella politica, nelle pubbliche amministrazioni e negl’ enti. Questi tipi di reato, purtroppo, molto spesso rimangono impuniti . Non si fanno passi avanti se non si comprende che “lotta alla mafia e lotta alla corruzione sono due facce della stessa medaglia”. Fino a quando Cosa Nostra disporrà di ingenti risorse economiche e finanziarie, disporrà sempre di un grosso potere di infiltrazione. Indispensabile poi, ammette Di Matteo, l’appoggio della politica nel contrastare questo sistema, o almeno, l’appoggio di quella parte rimanente di politica sana. A tal proposito il pm fa un rilevante cenno ai vuoti normativi che lascia il 416 ter e all’ impossibilità di ridurre il problema mafioso ad atti cruenti o eclatanti, ricordando che la situazione ideale per Cosa Nostra è una pacifica convivenza con lo Stato. Ribadisce, inoltre, il bisogno di proposte di legge forti che mutino questo sistema ormai logoro, che non ha saputo dare risposte valide e concrete. Leggi che tutelino anche i magistrati e la loro indipendenza, come stabilito dalla Costituzione, perché ogni attacco alla magistratura è un attacco trasversale al cittadino. Un pubblico ministero che dipende dall’ esecutivo non può più garantire indipendenza ed imparzialità. “La Costituzione non va modificata, va applicata”.
In fine, Di Matteo, conclude parlando delle motivazioni che l’ hanno spinto a portare avanti questo progetto: una razionale, che vede protagonista il suo senso del dovere, sempre per quell’idea di una magistratura sana al servizio del popolo. La seconda motivazione, è di carattere squisitamente irrazionale, che ha a che vedere con la passione per il proprio lavoro. Racconta che la sua generazione “è entrata in magistratura con le bombe”, con accanto le bare di Falcone e Borsellino, quindi, con l’ idea di una magistratura fatta di sacrificio, di passione, dovere e sentimento, molto lontana dall’ arida e sterile burocratizzazione a cui il sistema spinge. Il compito di un magistrato è quello di cercare la verità e trarre la propria forza dall’ ansia di giustizia e dalla sete di verità della gente onesta e per bene. In fine, esorta con sincerità e speranza i cittadini a controllare e vigilare sull’ operato dei magistrati e richiama il mondo dell’ informazione e del giornalismo alle sue doverose responsabilità.