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di Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino - 19 ottobre 2010
“Con questa si dorme ventiquattro ore”. Così sta scritto in un biglietto attaccato a una bustina di carta contenente “un prodotto biancastro”.
Lo afferma la sorella del bandito, Mariannina Giuliano, nel libro scritto con il figlio Giuseppe Sciortino, Mio fratello Salvatore Giuliano, Montelepre, “La Rivalsa”, 1987. E’ il 3 luglio 1950. Gaspare Pisciotta, il luogotenente del capobanda, parte verso mezzogiorno...

...alla volta di Palermo, a bordo di una 1100 nera che i carabinieri gli hanno messo a disposizione.

Tutto è pronto. Il colonnello Luca e il capitano Perenze, entrambi ufficiali dell’Arma, allertano i loro uomini: “Il momento è arrivato”.

Alla caserma Calatafimi, a Palermo, i due incontrano Pisciotta e lo portano da un picciotto recluso in una camera di sicurezza. Il suo nome è Nunzio Badalamenti. Subito dopo, i due ufficiali consegnano a Pisciotta la bustina con il sonnifero e gli affidano, proprio a lui che ha 38 omicidi sulle spalle, il detenuto. I carabinieri si fidano. E Gasparino pure.

E’ quasi buio quando Pisciotta incontra il sempiterno latitante Salvatore Giuliano a Villa Carolina, alla periferia di Monreale, una proprietà dell’Arcivescovado. Nel soggiorno, una tavola è imbandita con del caciocavallo fresco, pane e vino.

Ma da questo punto in poi i conti non tornano. Secondo Mariannina, Pisciotta versa nel bicchiere di vino di Giuliano il potente sonnifero. Questi si addormenta e poco dopo Badalamenti gli scarica addosso “tre colpi di pistola”.

http://casarrubea.files.wordpress.com/2010/10/fod7371.jpg Alle prime luci dell’alba del 4 luglio, arrivano a Villa Carolina i mafiosi Minasola e Miceli, alle sette del mattino Perenze e Luca. Secondo il racconto della sorella di Giuliano, il cadavere rimane nella villa per tutta la giornata, per essere poi trasferito a Castelvetrano nella notte tra il 4 e il 5, a bordo di un furgone del Comando forze repressione banditismo. Da qui, la famosa messinscena del cortile di Castelvetrano, la mattina del 5 luglio 1950.

Ma è credibile questa storia? Un bandito-terrorista tutt’altro che ingenuo e con 411 delitti accertati sul groppone, sarebbe stato così incauto da cadere in una simile, puerile trappola? Certamente no.

La verità, invece, sta emergendo piano piano in questi ultimi anni, grazie a ricerche, analisi, testimonianze da noi condotte, che ricostruiscono un quadro assai diverso da quello offertoci per sessant’anni dallo Stato.

La stessa Mariannina, che dice e non dice, afferma e nega, mette sorprendentemente in  discussione questa versione, all’interno un racconto  a volte fantasioso e depistante nonché pieno di contraddizioni.

Scrive:

“Turiddu mi aveva avvertita. Cominciai a dubitare. Tutto quello che dicevano i giornali non poteva essere vero. Questi dubbi mi hanno accompagnato tutta la vita, rafforzati dal fatto che il sosia di Turiddu, un giovane di Altofonte, sparì qualche giorno prima della ‘morte ufficiale’ e non se ne è saputo più nulla” (p. 343).

Nel volume, entra poi in scena la madre del bandito, Maria Lombardo, che è prelevata da un sottufficiale dei carabinieri, quella mattina, a Montelepre e portata a Castelvetrano a bordo di una macchina dell’Arma, per il riconoscimento del cadavere. L’accompagna Letterio Maggiore, il medico della famiglia Giuliano. Secondo Mariannina, all’anziana madre, in quel momento, affiora alla mente un messaggio che il figlio le aveva inviato mesi prima: “Se un giorno ti verranno a chiamare, dicendoti che sono stato ucciso, non ci credere!” E la stessa sorella del bandito si chiede: “Ma quella morte è reale o falsa? Turiddu è veramente morto o al suo posto è stato ucciso il sosia che l’ispettore Ciro Verdiani stava da tempo preparando?”

Il racconto del riconoscimento del cadavere, all’obitorio di Castelvetrano, è ancora più strano:

“La sala mortuaria era composta da un corridoio e da tre stanze poste in longitudine ad esso. Il corpo era stato sistemato nell’ultima stanza, entrando veniva quasi di fronte. Nostra madre avanzò lentamente, guardando fisso davanti a sé e arrivò fino alla seconda stanza. Prima ancora di vederne il viso, le sembrò di riconoscerne la corporatura. Mandò un urlo disperato e si accasciò al suolo svenuta. Il medico che la seguiva la soccorse prontamente. Mia sorella Giuseppina era dietro di loro con gli occhi velati di pianto e vide cadere nostra madre. Da questo solo fatto, capì che quello doveva essere proprio il corpo di nostro fratello. Si sentì mancare anche lei. Suo marito riuscì ad afferrarla, prima che cadesse, cercò di confortarla come meglio poteva, mentre il dottor Maggiore continuava ad occuparsi di nostra madre. Ci vollero un bel po’ di minuti prima che si riprendessero. Quando furono in grado di poter proseguire, i carabinieri li obbligarono ad uscire. Per loro, quegli svenimenti erano stati la prova tangibile che quel corpo apparteneva al nostro congiunto. Per loro, il riconoscimento era stato effettuato” (p. 345).

E conclude, a sorpresa: “Visto che nessuno della famiglia ha potuto vedere bene in viso quel cadavere, né tanto meno scrutarne il corpo alla ricerca di certi segni particolari, a qualcuno potrebbe sorgere spontanea questa domanda: Salvatore Giuliano è veramente morto?”

Tratto da: casarrubea.wordpress.com


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