di Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino - 15 ottobre 2010
Diceva Alcide Cervi, al quale i nazifascisti avevano ammazzato sette figli, che se avesse potuto fare l’amministratore del suo Comune, avrebbe certamente scelto di essere assessore ai cimiteri.
Perchè, spiegava, niente è più formativo della memoria del passato. Quando le tombe parlano ai vivi e suggeriscono loro le strade da percorrere per un futuro migliore.
Nell’Inferno dantesco, alcuni morti di Dite, la città del fuoco eterno, se ne stanno con i sepolcri scoperchiati e si ergono ansiosi di parlare. Sembrano, anzi, quasi supplichevoli nei confronti di quei due strani vagabondi che si avventurano nel mare di fuoco che li circonda.
Sono, almeno nell’immaginario letterario, eretici come Farinata degli Uberti e Cavalcante dei Cavalcanti, morti che parlano alla Ragione e favoriscono il miglioramento dei costumi della sempre più numerosa società dei vivi. Morti illustri, con interlocutori dall’udito raffinato, tutt’altro che ciechi in un mondo di uomini che si ritengono vivi.
Al polo opposto, tra i morti meno illustri, uno dei più loquaci è il terrorista nero Salvatore Giuliano. Parla molto male in vita con il linguaggio che gli fanno usare. E da “morto” non smette di fare miracoli, indicando a chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire, alcune immagini e alcune voci che purtroppo non furono nè viste nè ascoltate ai suoi tempi. E’ vero che le circostanze della presunta morte del bandito, che si sarebbe verificata la notte tra il 4 e il 5 luglio ’50, nel cortile dell’avvocato Gregorio De Maria, a Castelvetrano, sono state da sempre avvolte nel mistero. Volutamente. Ma è anche vero che spesso il ricorso al mistero è servito a coprire i mascalzoni e che nel nostro caso, se molti sono i lati oscuri, altri sono ben messi in evidenza al momento dell’evento tragico che avrebbe determinato in modo più o meno plateale, l’improbabile trapasso del capobanda monteleprino. Bastava indagare per capire. O evitare di coprire i misteri con l’omertà, come, crediamo, ancora oggi, qualcuno tenta di fare quando non ce ne sarebbe più la ragione.
Per vari motivi: la scarsa credibilità del racconto ufficiale del conflitto; perché molti capirono subito che quel corpo giacente in quel cortile era stato lì collocato, come in una spettacolare messa in scena degna di un film western; e, ancora, perché non pochi intuirono che tra quel “morto” e quell’altro che si sarebbe poi visto nell’obitorio, non pochi erano i particolari che lasciavano supporre che si trattava di due corpi diversi. Bastava interrogarsi. Ci siamo trovati invece di fronte a un giallo italiano durato sessant’anni, che continua ad appassionare anche per la sua coincidenza con le origini della storia della nostra Repubblica. Un giallo che solo l’esame del Dna sarà in grado di risolvere. Una volta per tutte, si spera.
Del chiaro indirizzo che la Magistratura di Palermo ha dato alla vicenda, sono soddisfatti finalmente i familiari delle vittime. Ritengono che la decisione dei Magistrati si muova nella direzione giusta per arrivare a individuare, nonostante il lungo tempo trascorso, responsabili e fiancheggiatori di una operazione tra le più inquietanti e criminali della storia democratica del nostro Paese. Prima, l’attacco terroristico alle forze più rappresentative del tessuto popolare dell’Italia; dopo, la messa in salvo degli artefici che ne avevano provocato gli esiti più tragici, come le stragi di Portella della Ginestra, del 22 giugno 1947 e di Bellolampo (1949).
Con la messa in scena di Castelvetrano, il principale protagonista di queste vicende, come di centinaia di altri delitti rimasti da sempre coperti e impuniti, evitò di fatto di affrontare il processo di Viterbo e di essere raggiunto dalla giustizia. Processo che era iniziato nel giugno 1950, cioè poche settimane prima del fatidico 5 luglio. E non a caso fu subito rinviato sine die. Perchè? Provate ad immaginare la scena. Con Giuliano vivo che piomba all’improvviso nell’aula di Viterbo per raccontare la sua verità. Roba da far saltare ministri, governi, apparati dello Stato e dell’Intelligence di mezzo mondo. Ecco perché è doverosa ed encomiabile l’azione che stanno svolgendo i Magistrati della Procura di Palermo.
Nessuno per il momento sa quali saranno gli esiti delle indagini. Tuttavia, di una cosa siamo sicuri e cioè che da qualche anno è iniziata la demolizione di un mito, la cui persistenza ha impedito agli studiosi di lavorare con serietà su uno dei periodi più tragici del Novecento italiano. Un mito ammorbante e scandaloso quello del monteleprino “Turiddu”, classe 1922. Una vera e propria trappola per giornalisti, storici e semplici cittadini. A cominciare dalla bufala vergognosa del “Robin Hood” siciliano, che nel dopoguerra “toglie ai ricchi per dare ai poveri”.
Su Giuliano e sullo squadrone della morte da lui guidato col pugno di ferro – che imperversa dal ’43 al ’50, con attentati a bomba, omicidi e stragi – lavoriamo da quindici anni. Con metodo scientifico, analizzando carte, libri, saggi, testimonianze di ieri e di oggi. Perché abbiamo sempre diffidato della “storia ufficiale” e creduto in una sola guida: la metodologia del dubbio.
Non siamo stati delusi. Lo scavo negli archivi italiani, americani e inglesi, che dopo il 2000 hanno messo a disposizione della ricerca milioni di documenti dei Servizi di intelligence sugli anni Quaranta, ha provato che la cosiddetta banda Giuliano era in realtà un plotone nazifascista al servizio, prima, delle Ss di Kappler e delle Brigate Nere di Pavolini. E poi dei Servizi Usa guidati a Roma da James Angleton e da Philip J. Corso. Un branco di assassini i cui capi, dopo la strage di Portella, passarono all’incasso per poi rifugiarsi all’Estero. Alla spicciolata, impunemente, protetti da organizzazioni intoccabili. Italiane e straniere.
I dubbi che le cose, nel luglio ’50, non siano andate come ci sono state raccontate, li abbiamo sempre avuti. E per questa ragione, alla vigilia del sessantesimo anniversario della scomparsa del bandito, il 5 maggio scorso, abbiamo scritto al Questore di Palermo, dott. Alessandro Marangoni, chiedendo di “intraprendere un’indagine conoscitiva per accertare la vera identità della persona uccisa nel cortile dell’avvocato De Maria, la notte tra il 4 e il 5 luglio 1950”.
La nostra richiesta è stata accolta e, questa estate, siamo stati a lungo ascoltati dal Pubblico Ministero Francesco Del Bene (Procura della Repubblica di Palermo).
Ora ci avviciniamo alla verità. A quella che solo i Magistrati possono consegnarci, ben al di là della verità storica. Analoga cosa si è fatta, in altri contesti, per Caravaggio, Copernico e persino per un nazista come Martin Bormann. L’esame del Dna metterà fine a chiacchiere da bar e a illazioni giornalistiche.
Se il cadavere sepolto nella tomba della famiglia Giuliano, a Montelepre, appartenesse effettivamente a “Turiddu”, sarebbero messe a tacere per sempre le voci popolari (ma non solo queste) secondo le quali il bandito-terrorista “si sarebbe rifugiato in America” nell’estate del ’50. Una notiza, tra l’altro, che gioverebbe non poco alla ricerca storica seria, accademica e non. Sgomberare il campo da fastidiosi boatos è sempre utile, in specie se si trattano argomenti così vicini nel tempo.
Se invece il sepolcro custodisse il corpo di qualcun altro – ad esempio, quello del celebre “sosia di Altofonte” di cui parlarono all’epoca giornalisti del calibro di Renzo Trionfera – si aprirebbero scenari di estremo interesse, soprattutto dal punto di vista giudiziario.
Un’ipotesi, questa, che vedrebbe l’Fbi in prima linea tra Italia e Stati Uniti. E, forse, in qualche convento dell’Italia centrale, tra gli Appennini e il Mar Adriatico.
Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino
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Di seguito, il lettore può trovare una breve rassegna dei principali articoli del blog Casarrubea sulla presunta morte del bandito di Montelepre (formato Pdf).
ARTICOLI SU GIULIANO NEL BLOG CASARRUBEA
Tratto da: casarrubea.wordpress.com
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