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Assieme all'ex pm Massimo Giletti. E con Michele Santoro è scontro sul ruolo di Cosa nostra

“L'indagine Sistemi criminali non si basa su una semplificazione per cui vi è una cupola politica di Servizi e Massoneria che vede Riina e Provenzano come marionette, ma evidenzia l'esistenza di un sistema criminale integrato dove ci sono dei rapporti di forza, anche al suo interno, che vede anche dei conflitti”. A spiegarlo è l'ex magistrato Antonio Ingroia, oggi avvocato, durante la presentazione del libro da lui scritto con Massimo Giletti, Traditi, edito da Piemme. All'evento, che si è tenuto presso la Libreria Mondadori (Galleria Alberto Sordi, è intervenuto anche il giornalista Michele Santoro. 
Tra il pubblico diversi addetti ai lavori, tra cui anche il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, che per un'ora hanno ascoltato il dibattito acceso tra i vari relatori.
Ingroia ha fatto una carrellata dei tradimenti di cui si parla nel libro, non solo quelli di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma anche quelli personali subiti nel corso della carriera in magistratura, ma anche nella politica, fino ad arrivare agli attacchi subiti assieme ai suoi colleghi dopo le intercettazioni che avevano visto protagonista il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. 


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Antonio Ingroia, Dario Scaletta e Massimo Giletti 


Il confronto si è particolarmente acceso su temi come i motivi che hanno portato alle stragi di mafia degli anni Novanta, la trattativa Stato-mafia, la discesa in campo di Silvio Berlusconi, ed il cosiddetto professionismo dell'antimafia.
Perché Santoro, sin dal suo intervento introduttivo, pur condividendo che le stragi mafiose siano parte di una strategia unitaria, non condivide che Cosa nostra abbia agito in accordo con altre entità. Ma perché in quel momento storico vi era un profondo cambiamento che la metteva in crisi e che la escludeva dal tavolo di potere.
“Le stragi maturano in un momento in cui cambia il rapporto di forza all'interno del Sistema - ha detto Ingroia - si guardi a ciò che avviene con Salvo Lima che ne era parte. Viene eliminato perché certe coperture istituzionali che Cosa nostra aveva non funzionavano più. Ciò è avvenuto anche grazie a Falcone che, entrato nelle stanze del potere, aveva creato un cuneo. Già prima, dopo l'omicidio Mattarella, Andreotti si rende conto che non può governare Cosa nostra e inizia a prendere le distanze. E' una questione di dinamiche criminali, ma dentro lo stesso sistema. Non sono entità estranee”. “Le possiamo chiamare zona grigia, relazioni esterne - ha aggiunto l'ex magistrato - Certamente l'organizzazione criminale Cosa nostra è stato strumento, con delitti fatti per ragioni politiche. Abbiamo avuto omicidi di movente non di tipo criminale mafioso. Un esempio è l'omicidio dalla Chiesa”. 


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L'attentato a Costanzo

Stimolato da Giletti e Santoro Ingroia, così come aveva fatto nella sua arringa al processo 'Ndrangheta stragista, ha detto la sua anche sul fallito attentato a Maurizio Costanzo. “Personalmente - ha detto - sono sempre stato convinto che l'attentato a Costanzo fosse anche un messaggio a Silvio Berlusconi. Costanzo aveva un ruolo vicino al Cavaliere ed era al tempo contrario alla scelta di Berlusconi di andare in politica. Qualcuno suggerì a Cosa nostra di farlo fuori, mandando anche un segnale a Berlusconi affinché si muovesse a prendere sostanzialmente il posto di Andreotti, cioè il riferimento degli interessi di mafia come era stata la Dc nella prima Repubblica. E ad occuparsi di questo vi era Marcello Dell'Utri, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Questi elementi emersero nel processo. Per questo io ho sempre ritenuto Berlusconi una vittima, più o meno consenziente o consapevole”. 


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Altro argomento di scontro sono state poi le parole di Sciascia e sul professionismo dell'antimafia. “Fare antimafia in un certo modo non fa fare carriera - ha detto Ingroia - Leonardo Sciascia aveva torto non solo nell'aver scelto un caso meno giusto. Paolo Borsellino si era meritato quel posto e il suo contendente era un burocrate, un uomo che a Trapani aveva insabbiato le indagini sull’omicidio Rostagno. Era un burocrate, esempio della maggiore magistratura che purtroppo è stata per decenni ed è tutt’oggi prevalente negli uffici giudiziari italiani. Non è vero che i meriti antimafia consentono di andare avanti, anzi ti penalizzano quando si fa antimafia in modo serio e vero. Perché poi ci sono due categorie di magistrati: quelli irregolari che non fanno carriera e i magistrati regolari come Pietro Grasso, che è simbolo della magistratura che fa carriera e in politica, nella logica di compatibilità di sistema. A lui nel libro critico l'aver dato ampio spazio a Pignatone che era nemico di Falcone”.  


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Giletti, invece, nel suo intervento, si è concentrato sul tema della speranza, ispirato da un discorso di Paolo Borsellino, ed ha sottolineato come la lotta alla mafia sia sempre stata accompagnata da un lavoro educativo nelle scuole, da parte di figure come Rocco Chinnici, Falcone e Borsellino. Sul punto ha espresso preoccupazione per il cinismo delle nuove generazioni, che vedono i giovani illuminati solo in momenti come gli esami di maturità (tanto che proprio ieri c'è stata la traccia dedicata alle parole di Borsellino), mentre il presente è spesso trascurato. 
Parlando del suo confronto con Ingroia ha anche sottolineato come lo stesso, così come il magistrato Nino Di Matteo, abbiano pagato un prezzo per la loro solitudine ed ha criticato l’ipocrisia di chi rende omaggio a Borsellino solo dopo la sua morte, mentre in vita lo ha ostacolato. 
Uno schema che, purtroppo, si ripete nel tempo.  


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Nino Di Matteo 


Foto © Imagoeconomica

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