La sorella Francesca: “Questa stele non è una pietra, ma una memoria viva”
"Vorrei una cosa che di fronte a questa stele: questa per me non è una pietra. È una memoria viva. E spero che chiunque non lo conoscesse, guardandola, possa chiedersi: 'Ma tu chi eri?' E lui possa rispondere: 'Io sono Giuseppe, uno di voi. Ho sacrificato la mia giovane vita per tutti, per la nostra democrazia, per la nostra libertà. Ma soprattutto per liberare questa terra dalla mafia e dalle collusioni che ne armano la mano". A parlare è Francesca Bommarito, sorella di Giuseppe Bommarito, Appuntato dei Carabinieri assassinato da Cosa nostra il 13 giugno ’83 assieme al collega Pietro Morici e al capitano Mario D’Aleo (a cui faceva da autista) nella strage di via Scobar a Palermo. Nella giornata di ieri la città di Balestrate ha ricordato il suo concittadino deponendo una corona di fiori dov’è situata la stele. Un’occasione per rinnovare la memoria e l’impegno civile nel nome di chi ha sacrificato la vita per la legalità e la giustizia.
Francesca si descrive come una sorella animata dalla sete di verità. Da qui è nata la decisione di scrivere un libro - "Albicocche e sangue" (Ed. Iod) - assumendo il ruolo simbolico di un detective, impegnata nella ricerca di indizi e riscontri. Il risultato è un diario-inchiesta in cui l’autrice – oggi psichiatra e psicoterapeuta – ricostruisce meticolosamente il triplice omicidio che si inserisce nel contesto della guerra dichiarata da Cosa nostra allo Stato. Un episodio rimasto a lungo avvolto da una fitta coltre di silenzio e indifferenza.
Secondo molti, infatti, l’appuntato Bommarito – a differenza dei due colleghi dell’Arma – sarebbe morto per una tragica casualità. Ma Francesca non ha mai creduto a questa versione. Per quasi quarant’anni ha inseguito la verità, tra depistaggi e voci infondate, esaminando atti giudiziari e raccogliendo testimonianze di carabinieri, giornalisti e altri protagonisti. Il suo intento era chiaro: restituire dignità e giustizia al fratello e a tutte le vittime di quella tragica giornata del 13 giugno 1983. E così ha fatto.
Nel suo racconto, Francesca ripercorre con precisione gli eventi, intrecciando il vissuto personale con la memoria collettiva: il distacco causato dall’emigrazione verso il Nord, l’amore viscerale per la Sicilia, il lungo silenzio della società civile e il suo lento risveglio, il senso del dovere che ha animato tanti carabinieri durante gli anni bui della mafia. Alla fine, giunge a una convinzione profonda: se una parte delle istituzioni può aver trattato con la criminalità, esistono anche uomini come suo fratello Giuseppe, che hanno scelto di difendere la propria terra senza cedere a compromessi, mettendo a rischio la propria vita.
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