Salvatore Carnevale: il sindacalista che lottò per i diritti dei braccianti, assassinato dalla mafia
Il 16 maggio 1955, nella piccola cittadina siciliana di Sciara, la mafia uccise brutalmente Salvatore Carnevale, giovane sindacalista e militante socialista, simbolo di un’Italia che lottava per l’emancipazione sociale dei lavoratori. La sua figura, spezzata tragicamente, incarna ancora oggi l’immagine di un uomo coraggioso, profondamente impegnato nella difesa dei diritti degli ultimi. Chiamato affettuosamente “Turiddu” da amici e compagni, Carnevale era cresciuto in una terra aspra, segnata dalla povertà e dai soprusi, dove contadini e operai erano costretti a vivere in condizioni di sfruttamento, senza tutele e senza voce. Dopo aver guidato le occupazioni delle terre, simbolo delle lotte contadine per la riforma agraria, era riuscito a trovare lavoro come muratore in una cava della zona.
Fu proprio in quel contesto che Salvatore riprese la lotta: organizzò i suoi compagni, promosse scioperi, fece sentire la sua voce in piazza, rivendicando i diritti negati. La sua determinazione gli costò presto le prime minacce. In paese si sussurrava che “ne avrebbe avuto per poco”. Ma lui non si fece intimidire. Continuò a opporsi con fermezza, fino al giorno in cui la mafia decise di metterlo a tacere per sempre. Lo uccisero con ferocia, colpendolo alla testa e alla bocca: un messaggio chiaro, destinato a terrorizzare chiunque avesse pensato di seguirne l’esempio. Era un omicidio esemplare, punitivo, ma soprattutto intimidatorio. In quegli anni l’Italia stava lentamente cambiando. Dopo le conquiste della riforma agraria, la stagione degli omicidi mafiosi contro i dirigenti sindacali sembrava essersi conclusa. Il Paese si preparava a entrare nel pieno sviluppo degli anni sessanta. Per questo, molti interpretarono l’assassinio di Carnevale come un residuo del passato, l’ultimo spasmo di una mafia ormai in declino. Ma si sbagliavano. La mafia, come avrebbe dimostrato di lì a poco, stava semplicemente cambiando volto: abbandonava le campagne e si spostava verso i nuovi centri di potere, l’edilizia, le aree edificabili, il business urbano. Come in ogni delitto mafioso, anche in questo caso non mancarono i tentativi di depistaggio: si cercò di sminuire il movente politico, insinuando gelosie personali e dissidi interni tra compagni stanchi dei lunghi scioperi. Solo grazie al procuratore Pietro Scaglione si riuscì a dimostrare che alla base dell’omicidio di Carnevale c’era il suo impegno civile, troppo fastidioso per la mafia. Il processo si trasformò in un evento simbolico, anche grazie al coraggio di Francesca Serio, madre di Salvatore, che in aula indicò con fermezza gli assassini del figlio, rompendo il muro dell’omertà. Una testimonianza che le valse il nome di “madre coraggio”. Eppure, nonostante la sentenza iniziale che condannò i colpevoli all’ergastolo, nei successivi gradi di giudizio la verità processuale venne ribaltata. La mafia fece sentire il suo peso: testimoni ritrattarono, i giudici cambiarono idea. Alla fine, i responsabili vennero assolti. Tuttavia, una delle sentenze non poté fare a meno di riconoscere la grandezza morale della vittima. In un passaggio significativo si ammise che Salvatore Carnevale aveva dedicato tutta la sua breve vita alla causa dei lavoratori con passione, generosità e senza alcun interesse personale. Era morto sulla “trazzera” - il sentiero sterrato che portava alla cava - luogo del suo lavoro, del suo impegno e della sua ultima resistenza.
Fonte: ilSicilia.it
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