40 anni dopo, le prove danno ragione ad Andrea Purgatori, Carelli: “Nei cieli italiani si è consumata un’azione di guerra”
Il giornalista Andrea Purgatori, ancora una volta, ci aveva visto giusto: la strage di Ustica, che il 27 giugno 1980 provocò la morte delle 81 persone a bordo del volo Itavia IH870 - 77 passeggeri e 4 membri dell’equipaggio - sarebbe stata causata quasi certamente da una battaglia aerea mai dichiarata, avvenuta nei cieli italiani. La ricostruzione dei fatti arriva ora da un’inchiesta pubblicata dal settimanale L’Espresso, che ha confermato la versione sostenuta dal giornalista scomparso nel luglio 2023, al quale è stata dedicata una targa commemorativa intitolata “Il Muretto di Andrea”, posizionata nel giardino del Museo per la Memoria di Ustica, in via Saliceto, a Bologna. Dunque, non si sarebbe trattato di un attentato terroristico né di un guasto tecnico: ipotesi dibattute per decenni nelle aule giudiziarie, tra perizie, relazioni ufficiali e smentite. Il direttore del settimanale, Emilio Carelli, nel suo editoriale scrive che le prove oggi disponibili - frutto dell’inchiesta condotta dal giornalista Paolo Biondani - indicano inequivocabilmente che quella notte, nei cieli italiani, si consumò una vera e propria “azione di guerra in tempo di pace”. Una situazione estrema, tenuta nascosta per decenni e seguita da un sistematico occultamento di documenti, registrazioni, rapporti militari e dati radar. Diverse prove cruciali, che avrebbero potuto chiarire l’accaduto, sono nel tempo sparite o volutamente ignorate.
Nessun esplosivo, dunque, né un missile lanciato da un caccia americano durante l’inseguimento di un MiG-23 libico in volo sul Mediterraneo avrebbe causato la strage di Ustica. Uno dei principali indizi arriva direttamente dal relitto del DC-9 precipitato quella notte: un frammento dell’ala destra risulta deformato verso la prua, con evidenti segni di strisciate, compatibili con un impatto violento contro un oggetto solido. Ma andiamo con ordine. Partiamo dalle dichiarazioni del professor Donato Firrao, che nel 1993 firmò la perizia che smontava sia la teoria della bomba a bordo sia quella del missile esterno. “La punta dell’ala destra - ha spiegato Firrao - è schiacciata su più lati”, segnata da “urti, ammaccature e strisciate”. Segni che, come detto, “sono rivolti verso la prua dell’aeromobile”. Pertanto, “non sono lesioni provocate dall’impatto con il mare, ma da una collisione precedente, avvenuta in direzione opposta”. Infatti, il DC-9 di Itavia cadde in picchiata, mentre i segni dimostrano un impatto avvenuto nella direzione contraria. Anche Ramon Cipressi e Marco De Montis, due ingegneri aeronautici che da anni studiano il caso, hanno confermato la validità della perizia di Firrao. L’ingegner Cipressi ha spiegato che a supportare tale tesi ci sarebbero anche altri segni simili, distribuiti in maniera lineare da un’ala all’altra dell’aereo. “Sono le impronte di un caccia che lo ha investito e abbattuto - ha sottolineato Cipressi -. Il primo impatto è quello che ha provocato la deformazione della punta dell’ala destra”. Il contatto con un oggetto esterno è confermato da altre “scalfitture che corrono sotto la stessa ala”, sempre in direzione della prua del DC-9. Secondo la ricostruzione, l’oggetto che ha colpito l’aereo avrebbe poi danneggiato il carrello d’atterraggio, con un danno localizzato: “le ruote restano intatte, mentre non c’è traccia di esplosione”. Inoltre, “un frammento - prosegue Cipressi - viene letteralmente strappato e finisce nella gamba destra di una passeggera”: un pezzo di metallo tranciato “da una forza meccanica”. Anche “i due cavidotti risultano tranciati da destra verso sinistra”, causando il blackout a bordo. Questo spiegherebbe, tra l’altro, perché “la voce del comandante si interrompe bruscamente” alle 20:59:45, mentre l’aereo sorvolava il Mar Tirreno, nei pressi di Ustica.
Le prove sparite
“La verità, purtroppo - scrive Carelli - è che molte delle prove che avrebbero potuto chiarire definitivamente i contorni di quella notte sono semplicemente scomparse. Documenti vitali, registrazioni e rapporti sono stati occultati nel silenzio assordante di una verità che qualcuno, evidentemente, ha tentato di nascondere”. Qualcuno, dunque, si sarebbe impegnato a far sparire le prove. Tuttavia, questa volta, qualcosa di utile per ricostruire le dinamiche è rimasto. Ed è proprio su questi elementi che oggi si basano gli esperti della strage di Ustica, per capire non solo come si è consumata la tragedia, ma anche chi ne è stato il responsabile. In questo senso, sono significativi alcuni reperti rinvenuti in fondo al mare, nella stessa area dove fu recuperato anche il relitto dell’aereo Itavia, ma che non appartengono al DC-9. Si tratta infatti di componenti di un serbatoio esterno di un aereo militare statunitense. “Ha la forma di un siluro - scrive Biondani su L’Espresso -, è stato prodotto in California dalla società Pavco, è lungo 5 metri e può contenere fino a 1.135 litri di carburante”. Dopo che i magistrati italiani chiesero chiarimenti a Washington sulla presenza di quei rottami in quel tratto di mare, “le autorità americane risposero che il serbatoio sarebbe andato perduto nel 1981, a 60 chilometri di distanza, durante un incidente mai segnalato”. Una spiegazione giudicata inverosimile dagli esperti, secondo i quali è improbabile che le correnti marine abbiano trasportato quei pezzi fino a Ustica. L’ingegner Cipressi ha aggiunto un altro dettaglio: “Il serbatoio dell’aereo militare statunitense è finito in mare con una traiettoria balistica rispetto al Punto Condor. Questo - ha spiegato - significa che un oggetto che cade da un’altezza di 7.600 metri precipita proprio a quella distanza, in quel preciso tratto di fondale”, il che fa pensare che il serbatoio sia caduto direttamente lì, e non sia stato trasportato dalle correnti. Non solo: la vernice presente sul serbatoio ritrovato - nel punto in cui è precipitato anche il DC-9 - è di una tonalità di azzurro identica a quella usata sui caccia americani “A-7E Corsair II”, che - guarda caso - la sera del 27 giugno 1980 erano imbarcati sulla portaerei “USS Saratoga” della Marina statunitense. Nave che, proprio quella sera, si trovava nel Mar Tirreno, in navigazione tra Napoli e la Sicilia, lungo la rotta dell’aereo Itavia. Una posizione che non è mai stata chiarita in modo esaustivo dalle autorità statunitensi. “Quei serbatoi - hanno sottolineato Cipressi e De Montis - possono essere montati su quattro modelli di aerei, ma solo quelli dei Bulls della Saratoga avevano la prua celeste”. Il riferimento è alla squadriglia VA-37 (“Bulls”), che secondo alcune ricostruzioni era operativa la notte del 27 giugno 1980 proprio a bordo della Saratoga.
A tutto questo si aggiungono ulteriori anomalie: quella sera, gli equipaggi degli elicotteri di soccorso partiti da Palermo notarono la presenza di razzi di segnalazione di tipo militare, non in dotazione alle forze armate italiane. Nel mare di Ustica furono ritrovate anche alcune boe statunitensi, come quelle che vengono utilizzate durante le operazioni di ricerca e soccorso. Tra i reperti emersi dopo la strage venne trovato anche un casco da pilota militare, con la scritta “John Drake”. Un nome che per alcuni sarebbe uno pseudonimo, forse usato in operazioni segrete. Cipressi e De Montis hanno segnalato anche un altro dettaglio: insieme al casco, fu ritrovato anche un salvagente - guarda caso - della portaerei Saratoga. Entrambi i reperti erano custoditi in depositi militari, ma sono spariti, nonostante fossero sotto sequestro giudiziario. Come se non bastasse, insieme ai reperti è sparito anche il pilota dell’aereo che perse il serbatoio celeste. “Non si trova più”, ha ribadito con rammarico il professor Donato Firrao.
Foto © Imagoeconomica
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