L’intervista dello storico avvocato dei collaboratori di giustizia al Corriere di Siena

"Anche se il mio impegno al riguardo negli ultimi anni è un po' diminuito – ha spiegato – devo purtroppo denunciare uno svilimento di questo fondamentale pilastro (quello dei collaboratori di giustizia ndr), con le istituzioni che lo depotenziano invece di incentivarlo. Eppure, i nostri risultati sono sotto gli occhi di tutti. Siamo partiti molto bene, ispirandoci il più possibile a quanto avveniva in America, dove però hanno una visione più laica. Basti pensare che viene garantita protezione continua al soggetto e addirittura è prevista una copertura per risarcire le vittime di eventuali atti criminosi compiuti dal collaboratore, qualora continui a delinquere”.

Sono state queste le parole dell’avvocato Luigi Li Gotti in un’intervista rilasciata al Corriere di Siena: il legale sarà presente il prossimo 19 febbraio, alle ore 18, presso il complesso museale di Santa Maria della Scala a Siena, dove si terrà la presentazione del libro Pentiti di Luca Tescaroli, Procuratore capo della Repubblica di Prato.

L’evento fa parte del ciclo Pagine di Legalità, un'iniziativa volta a promuovere la cultura della giustizia e dell’antimafia attraverso la letteratura e il dibattito pubblico.

Il procuratore Tescaroli “non ha fatto un testo giuridico, bensì ha scritto un'opera che spiega la legge in maniera discorsiva, con esempi concreti di operatività. Diventa un libro che si fa leggere, una scelta che ho molto apprezzato perché lo stile non è quello di uno studio di un fenomeno normativo, ma si cala nella realtà attraverso la narrazione di vicende specifiche. Un'impostazione davvero interessante”.

Li Gotti è tornato così a denunciare lo smantellamento della legislazione che regola l’istituto dei collaboratori di giustizia: “Dopo un po', si è cominciato a lamentarsi dei costi, a dire che nel programma venivano inseriti troppi familiari a carico dello Stato, così ora, a un certo punto, l'accordo decade, la protezione viene tolta. E c'è di peggio”, ha continuato, riferendosi alla nuova trovata del governo: una norma che toglie tutti i sostegni economici ai collaboratori, o meglio, “una norma dice che i collaboratori che escono dalla protezione devono ricostruirsi una vita in maniera autonoma, a cominciare dalla ricerca di un lavoro, ma spesso hanno un'età in cui, anche volendo, nessuno può offrire loro un posto.

Senza contare che magari non hanno le competenze per inserirsi nel mondo professionale, perché nella vita hanno fatto solo una cosa: delinquere. Al momento dell'uscita, è previsto un indennizzo, la capitalizzazione, con cui in teoria dovrebbero ripartire. Ma subito l'erario chiede il risarcimento delle spese affrontate dallo Stato per la custodia. È vero che ognuno risponde pro quota, però si tratta ugualmente di somme ingenti, e quasi sempre la cifra viene erosa totalmente.

Un mio cliente ha ricevuto una cartella esattoriale superiore a un milione di euro, quindi non potrà mai saldare una tale pendenza. Ma facciamo l'ipotesi che qualcuno riesca a far fronte e che gli rimanga qualcosa: la stessa direttiva prevede che la somma residua debba essere obbligatoriamente investita nell'acquisto di un immobile. Anche se uno si trovasse con 20 o 30 mila euro in mano, risorse che in teoria gli dovrebbero servire per ricostruirsi una vita, cosa ci comprerebbe? E poi, con cosa camperebbe?

Dal momento in cui accetta questa soluzione, il collaboratore di giustizia ha letteralmente il problema di trovare da mangiare. Cosa fa, si sfama con i mattoni che è obbligato per legge a comprare? Senza contare le minacce, i rischi che corre chi si è esposto fino a questo punto".

È un fatto gravissimo - ha detto - il cui effetto potrebbe causare il blocco di possibili collaborazioni. Chi acconsentirebbe, infatti, sapendo che, passati alcuni anni, verrà messo in mezzo a una strada? Uno di loro, che ho personalmente seguito, ha pensato di ritornare nei territori di origine perché almeno lì può contare sull'aiuto di qualche parente in un luogo che conosce. Così si espone non solo al rischio delle vendette, ma anche a quello di rientrare nel circuito malavitoso perché, ripeto, questa gente sa solo fare quello, non ha mai fatto altro che delinquere. Io mi chiedo come si possa non valutare questi aspetti. Non ci si inserisce con forze proprie nella realtà dopo un percorso come la collaborazione. Non è neanche giusto lavarsene le mani, perché comunque queste persone ci hanno dato un aiuto prezioso e sono state uno strumento importante nella lotta alle organizzazioni criminali” ha detto Li Gotti su Il Corriere di Siena.

Il legale ha avanzato anche delle proposte risolutive: occorre, ha rimarcato, “verificare una modalità di assistenza che consenta a questi ex mafiosi di poter vivere, in modo da incentivarne anche altri verso collaborazioni future. Invece il nostro è un Paese in cui c'è insofferenza verso idee di questo tipo. So comunque che molte Procure della Repubblica stanno cercando di trovare vie alternative. In alcuni casi, difendendo con forza l'utilità per la giustizia del collaboratore, il programma è stato prorogato, ma solo per due anni. Non si può fare altro, ma è solo un modo di allontanare l'inevitabile scadenza in cui si verificherà l'applicazione della normativa. Così si tappa momentaneamente una falla, ma vanno risolti i problemi, prima di tutto quelli dei debiti con l'Agenzia delle Entrate. Un modo ci sarebbe, anche se non può essere definitivo: attivando una procedura della cosiddetta ‘remissione del debito’, il Tribunale di Sorveglianza potrebbe decidere che il richiedente che ha dei debiti non ha altre fonti di sostentamento, e quindi cancellare le pendenze con l'Erario. Sarebbe a discrezione e da valutare caso per caso, ma il collaboratore che ne dovesse usufruire potrebbe avere la somma integrale della capitalizzazione, anche se poi potrebbe rimanere esposto all'aggressione delle parti offese nei processi”.

Alle ultime battute, Li Gotti è tornato a parlare del caso del torturatore libico Almasri e della sua denuncia al governo per la sua ‘miracolosa’ liberazione. È stata una decisione dettata dall’esigenza di “non sentirmi preso in giro. C'è una ribellione interiore perché io, nonostante le cose che ci siamo detti finora, spero di vivere in un Paese civile. Non voglio l'aggravante di vedere la civiltà contaminata dalla barbarie di liberare una figura come quella. È una cosa che non posso accettare prima di tutto come cittadino, la voglio combattere e lo rifarei mille volte. Dobbiamo tutti riappropriarci della dignità e imporci la speranza del Paese che desideriamo”.

Fonte: Il Corriere di Siena

Foto © Paolo Bassani

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