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Don Marcello Cozzi esplora la storia di uno dei più temuti esecutori di Cosa Nostra, senza giustificare né assolvere

Il titolo del libro è “Uno così” (edizioni San Paolo), e racconta la storia di Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia e uno dei più temuti esecutori di Cosa Nostra. L'autore è don Marcello Cozzi, sacerdote antimafia noto per la sua costante opera a favore della legalità e della giustizia sociale. La prima presentazione di questo volume, sicuramente tra i più discussi delle ultime settimane, si è tenuta presso il Centro Studi “Paolo e Rita Borsellino” di Palermo, suscitando anche alcune polemiche. Brusca, l'uomo che azionò il telecomando causando l'esplosione dell'ordigno a Capaci, che uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, non si è mai definito “convertito” nel senso spirituale del termine. Tuttavia, ha intrapreso un percorso di riflessione di carattere prevalentemente laico, influenzato soprattutto dall’incontro con Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo Borsellino, assassinato brutalmente nella strage di via d'Amelio il 19 luglio 1992, insieme a cinque dei sei membri della sua scorta. “In tutti questi anni in cui ho incontrato i collaboratori di giustizia - ha spiegato don Marcello - mi sono convinto che il bene più importante che puoi confiscare alle mafie sono i mafiosi. La manovalanza è il bene più prezioso che la mafia ha a disposizione. Per togliere quel bene, non è sufficiente chiedere la loro collaborazione, ma bisogna fare un passo in più: entrare nelle loro storie”. Il libro parla anche di questo, della storia brutale dell’ex soldato di Cosa Nostra - lo stesso Brusca si è definito tale, ‘un soldato di un altro Stato’ - della sua vita e delle sue scelte. Compresa quella di non dichiararsi “redento” dalle sue azioni, a differenza di altri collaboratori di giustizia, come Gaspare Spatuzza. In ogni caso, don Marcello Cozzi ha chiarito che il libro non ha assolutamente l’intenzione di assolvere o diventare uno strumento di perdono per Brusca; non è nemmeno un tentativo di giustificare le sue azioni passate. Anzi, al contrario, il libro intende far riflettere sul male perpetrato dalla mafia, mantenendo vivo il ricordo delle vittime. “Come società civile siamo chiamati non solo a metterli in carcere e far loro pagare per gli errori commessi - ha proseguito - ma dobbiamo anche ascoltare le loro storie. Quando queste storie ci creano fastidio, dobbiamo cercare, per quanto possibile, di andare alle radici del male. Perché da qualche parte una spiegazione - ha sottolineato - io la devo trovare”. E ha aggiunto: “Quello che dobbiamo combattere non è solo l’organizzazione criminale in sé, ma anche la cultura di cui i mafiosi si sono nutriti e che li ha alimentati. Altrimenti, la nostra battaglia rischia di essere impari”. Durante la presentazione del libro, moderata dal noto giornalista di Repubblica, Salvo Palazzolo, è intervenuto anche Vittorio Teresi, ex magistrato antimafia e presidente del Centro Studi intitolato a Rita e Paolo Borsellino. L’ex magistrato ha espresso forti preoccupazioni riguardo alle recenti riforme politiche in tema di giustizia: “Quando l’apparato pubblico ha iniziato a mostrare una certa indifferenza verso le vicende che riguardano il contrasto alla mafia. Quando ha dimostrato di voler far cessare questa ‘emergenza criminale’, fino a modificare quelle leggi che hanno consentito i vari processi giudiziari degli anni ‘90 e 2000. Quando la questione mafia non è più entrata nell’agenda del Governo - ha sottolineato Teresi – e sono state approvate leggi che oggettivamente indeboliscono il contrasto alla mafia, ecco che il mafioso che vuole collaborare, anche per un interesse personale, ci pensa due volte prima di affidarsi a uno Stato che non è più così affidabile. Per fare un esempio: aver abrogato il reato di abuso d’ufficio significa aver eliminato un ‘reato spia’, che indica l’esistenza di reati più gravi. Oppure - ha proseguito l’ex magistrato - ridurre il tempo di ascolto delle intercettazioni telefoniche a 45 giorni, anche se si dice che non riguardi i reati di mafia, significa indebolire indirettamente la ricerca dei vari strumenti criminali che la mafia utilizza per infiltrarsi nella pubblica amministrazione”.

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