Danilo Dolci trascorse circa 45 anni in Sicilia e Trappeto e Partinico furono i luoghi in cui visse. A chi gli chiedeva perché avesse scelto quel territorio, Danilo rispondeva che era perché si trattava del «territorio più misero» che avesse mai visto. Quando Danilo, agli inizi del 1952, decise di trasferirsi a Trappeto «il paese era attraversato da un vallone centrale che serviva da fognatura scoperta. I bambini di Trappeto ci sguazzavano dentro». Questa la sua descrizione, che proseguiva: «Mi trovavo, pur in Europa, in una delle zone più misere e insanguinate del mondo: vasta la disoccupazione, diffusissimo l’analfabetismo, sottilmente e prepotentemente penetrante quasi dovunque la violenza mafiosa».
Ma quale fu l’atteggiamento(inteso come impegno nel contrasto) di Danilo Dolci con il sistema politico criminale che dominava quel luogo e la Sicilia intera?
Danilo è tra i primi intellettuali italiani a denunciare (facendolo direttamente in commissione parlamentare) il rapporto mafia-potere politico, un impegno e delle dichiarazione che gli costeranno due processi.
Il primo si svolse nel 1956 di fronte alla prima sezione del Tribunale di Palermo. L’imputazione contestata a Dolci, sottoposto a carcerazione preventiva per 50 giorni, era di «invasione di terreni» durante uno sciopero alla rovescia di disoccupati realizzato a Partinico. Dolci fu condannato, sia pure con il riconoscimento dell’attenuante dei «motivi di particolare valore morale e sociale» a un mese e venti giorni di reclusione. Del collegio di difesa faceva parte Piero Calamandrei, la cui arringa difensiva passerà alla storia:
“… Questa non è la causa di Danilo; e neanche di Partinico; e neanche della Sicilia. E’ la causa del nostro Paese: del nostro Paese da redimere e da bonificare”.
Il secondo processo venne celebrato davanti alla IV sezione penale del Tribunale di Roma, vide come imputati Dolci e Franco Alasia ed ebbe inizio il 20 novembre 1965. Di altissimo spessore i nomi dei querelanti: Bernardo Mattarella, ministro per il Commercio con l’estero, e Calogero Volpe, sottosegretario alla Sanità, entrambi esponenti di rilievo della Democrazia Cristiana. Bernardo Mattarella – merita ricordarlo – era il padre di Piersanti, divenuto anni dopo presidente della Regione Sicilia e ucciso dalla mafia il 6 gennaio 1980, e di Sergio, attuale presidente della Repubblica. Altrettanto in vista erano i difensori di Mattarella: Giovanni Leone (divenuto nel dicembre 1971 presidente della Repubblica) e Girolamo Bellavista, principe del Foro di Palermo. Per Danilo Dolci, i rapporti tra mafia e politica in Sicilia non si esaurivano nelle persone di Mattarella e di Volpe (come documentato nel libro inchiesta Chi gioca solo, pubblicato nel 1966 da Einaudi): semplicemente questi erano gli uomini politici più rappresentativi e influenti della zona in cui Dolci operava e quindi su di loro si era concentrata la sua attenzione. Ma la scelta del Tribunale fu proprio quella di evitare di estendere l’esame alle responsabilità della Democrazia cristiana per la diffusione della mafia nell’isola, accogliendo l’impostazione dell’avvocato Leone secondo cui: «La causa, essendo già sufficientemente istruita, non postula l’opportunità di nuovi accertamenti. Il processo non può e non deve uscire dai suoi limiti, in esso non si possono affrontare problemi generali dovendosi esso riferire a problemi personali».
Con tale decisione, la mafia uscì dall’aula e la posizione degli imputati fu definitivamente pregiudicata, tanto che Dolci ed Alasia, con una lettera del gennaio 1967, comunicarono al presidente del collegio la decisione di astenersi, per protesta, dal partecipare alle ulteriori udienze. Questi i termini reali del processo, nel quale Dolci fu condannato a due anni di reclusione e a 250 mila lire di multa (tutti condonati). Bernardo Mattarella uscì, dunque, vittorioso dalla contesa giudiziaria, che, peraltro, segnò la fine della sua carriera politica, tanto che, a partire dal 23 febbraio 1966, quando si costituì il terzo governo Moro, non fu più ministro.
La giustizia formale evidentemente non è mai stata favorevole a Danilo e alle sue battaglie, ma la Storia, a cento anni dalla sua nascita, gli ha sicuramente restituito quella dignità e quella grandezza che merita il suo impegno. Calunnie, atti intimidatori, tentativi di ridimensionare e ridicolizzare i risultati ottenuti, vere e proprie campagne denigratorie sono state una costante lungo tutta la vita di Danilo Dolci: tutte cose che concorrono a confermare che Danilo è stato, e continua ad essere, un intellettuale onesto, coraggioso, ma soprattutto scomodo.