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I rimpalli burocratici tra le istituzioni ecclesiastiche rallentano i lavori della Commissione istituita da Papa Francesco, che esattamente dieci anni fa pronunciava una storica scomunica nei confronti dei mafiosi. Ma alcuni vescovi e cappellani delle carceri si chiedono se l’intera vicenda non vada “corretta” dal punto di vista pastorale
Città del Vaticano – “Convertitevi!”. “Non cedete alle suggestioni della mafia, che è strada di morte”. “Chi segue questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio. Sono scomunicati”. È l’evoluzione della condanna della mafia in poco più di vent’anni da parte del Capo della Chiesa cattolica. Dapprima fu Giovanni Paolo II, che tuonò contro Cosa nostra nella Valle dei Templi. Poi Benedetto XVI, sempre in terra di Sicilia, nell’incontro con i giovani palermitani, incalzò le nuove generazioni a ribellarsi alla mafia. Quattro anni dopo, Papa Francesco, in un assolato pomeriggio di giugno, mentre era in visita in una Calabria che pochi mesi prima aveva visto l’omicidio mafioso di un bambino, raccogliendo l’eredità dei suoi due predecessori, opta per un taglio netto pronunciando quella che a tutti gli effetti è una frase storica.
Sono passati esattamente dieci anni da quell’omelia per la solennità del Corpus Domini che il Papa celebrava, per la prima volta dopo decenni, fuori Roma. Ma ogni parola, soprattutto se pronunciata dalla guida spirituale di miliardi di persone, ha un peso. E spesso anche una risposta altrettanto forte.
Accadde con Giovanni Paolo II, che dopo quell’urlo, ancora oggi riecheggiante tra le colonne del tempio della concordia, vide il Laterano, la Cattedrale del Vescovo di Roma, e San Giorgio al Velabro, lacerate dalle bombe al tritolo. Nelle carceri in molti si ribellarono contro il Sommo Pontefice. La stessa cosa, bombe escluse, accadde dieci anni fa dopo le parole di Papa Bergoglio. Ma accadde anche prima. Quando il cardinale Pappalardo visitò il carcere palermitano dopo i suoi pronunciamenti a favore di una Chiesa antimafia, che ancora piangeva don Pino Puglisi, i detenuti si rifiutarono di prendere parte alla sua messa. Un “ammutinamento della fede” che, spesso, capita ancora oggi.
“Molti dei detenuti rinchiusi al Pagliarelli di Palermo con l’accusa di essere mafiosi si professano cattolici. O per lo meno di faccia”, ci racconta fra Loris D’Alessandro, cappellano del carcere. “Sono pochi quelli che veramente hanno fede e cercano un percorso di riabilitazione che riaccenda la propria vita non solo socialmente ma anche spiritualmente”.


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Frate Loris D’Alessandro (tratto da livesicilia.it)


Fuori da qui – prosegue il frate – i mafiosi sono molto presenti nella vita pubblica della Chiesa, ma bisogna fare una precisazione. Si deve distinguere la partecipazione di queste persone dalle processioni, dove vogliono farsi vedere per ostentare il loro potere. Sono quasi sempre dietro e ci tengono molto, soprattutto alle feste patronali perché credono che anche così riescono a mantenere le redini del quartiere”.
Altro discorso invece è per la messa – precisa fra Loris –. Alcuni, soprattutto qui dentro, cercano di vivere con sincerità la fede e si rivolgono a Dio in modo autentico. Lo fanno però privatamente, non si espongono perché facendo parte del sistema hanno paura delle ripercussioni. La stragrande maggioranza vive la fede come una facciata, non gli interessa. Recitano preghiere, fanno la coroncina ma non c’è un coinvolgimento vero”.
Il frate lavora da anni come pastore di queste anime e sa bene cosa accade quando il Papa parla di scomunica ai mafiosi, concetto più volte ribadito da Bergoglio nel corso di questi undici anni di pontificato: “L’approccio dei detenuti è subito una reazione contraria. Tutti, pubblicamente, dentro il carcere, reagiscono ‘disertando’ le funzioni, screditano e attaccano con le parole il Pontefice. Non viene mai presa bene. Chi ne è veramente colpito sono quei pochi che si accostano ai sacramenti con vera fede”. Per questa minoranza, che pubblicamente si uniforma alla maggioranza, “c’è tanta sofferenza”. Del resto, la fede ha aiutato e continua ad aiutare molti nel percorso di redenzione anche sociale.
Una prova evidente è la confessione che il figlio del boss di Altavilla Milicia ha reso ai magistrati qualche anno fa, quando raccontò di essersi “convertito” mentre l’arcivescovo di Palermo aveva portato in carcere le reliquie di Santa Rosalia tanto da iniziare a collaborare con la Giustizia. In un contesto delicato come quello del carcere, viene quindi da domandarsi se la scomunica può essere effettivamente una medicina al cancro della mafia.
Difficile rispondere, la scomunica dovrebbe avere quell’effetto di medicina – il commento di frate Loris –. Sei fuori dalla comunione perché devi rivedere la tua vita. O almeno dovrebbe avere questa forma. Ma oggi la pedagogia è cambiata. Da piccoli se ci davano una punizione capivamo subito che avevamo sbagliato. Ora le cose sono cambiate. La punizione da sola non basta”.


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Michael Czerny © Imagoeconomica


Cosa fare allora? Secondo il frate, quello che si potrebbe modificare sono le parole: “Potrebbe essere individuata un’altra parola. Anche perché parlare di mafie è molto generico. Dovrebbe essere per tutte le organizzazioni criminali. Quando si parla di queste cose bisogna sempre tener conto che l’aspetto pastorale e quello teologico dovrebbero dialogare. Va fatta una riflessione più attenta e provare una terminologia appropriata senza dimenticare che l’uomo non è il suo peccato”.
Di terminologia inappropriata ne aveva parlato recentemente anche il cardinal Michael Czerny, prefetto del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, Dicastero nel quale era stata incardinata la Commissione istituita da Papa Francesco nel 2021 proprio per elaborare un documento che mettese nero su bianco la scomunica latae sententie pronunciata dallo stesso Bergoglio dieci anni fa. Commissione che il cardinal Czerny ha ceduto alla Cei perché, secondo lui, “la mafia è solo un problema italiano e la Santa Sede ha altre priorità”.

Incalzato sull’argomento, il porporato ha fatto capire che per il momento, un pronunciamento di questo tipo da parte del Vaticano è lontano dall’essere pubblicato. Glissando alla domanda su quando la Commissione sarà nuovamente riunita, Czerny ha detto che “è sbagliato parlare di mafia perché mafia (al singolare, ndr) rimanda all’Italia. Bisogna parlarne al plurale, o comunque sia trovare una parola che comprenda tutte le organizzazioni criminali”.
Non solo: il porporato ha spiegato che più che un atto della Santa Sede è auspicabile “che ogni chiesa locale pubblichi un documento che condanni le mafie in quella porzione di territorio”. Questo perché ogni organizzazione mafiosa, anche se simile nell’essenza, per molti aspetti si differenza in molti aspetti. Ma se su questo il cardinale ha più che ragione, Czerny dimentica che, soprattutto in Italia, le Conferenze Episcopali delle regioni del Sud hanno già emanato editti o scomuniche in questo senso. E lì la parola mafia appare.

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