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strage-via-damelio-big0di Anna Petrozzi - 25 luglio 2012
Finalmente “la trattativa” arriva al primo vaglio verso il processo. E non si dice “finalmente” per crudele senso di irresponsabilità verso la tenuta democratica del nostro Paese, come qualche donabbondio ha già insinuato, ma per la semplice convinzione che se si vuole svoltare pagina e far crescere e maturare il nostro Paese non vi è altra strada se non quella della verità. Per quanto male possa fare. Finalmente, se i giudici accoglieranno la richiesta di rinvio a giudizio per dodici indagati a vario titolo, si potranno sondare in profondità tutte le dinamiche che hanno portato allo stragismo eversivo di Cosa Nostra e alle sue finalità. Che oggi più che mai appaiono chiaramente ben al di là della mera vendetta mafiosa.

In testa alle priorità della cupola, all’indomani della condanna definitiva del maxi processo emessa il 30 gennaio 1992, non c’era solo il regolamento di conti con i nemici e con i traditori, ma la ri-negogazione di un patto di convivenza nato nel 1943 e aggiornato di pari passo con l’evolversi della nostra repubblica dei “patti e dei ricatti”.
L’omicidio Lima (il 12 marzo 1992) segna la rottura definitiva di un equilibrio retto fino a pochi anni prima quando Andreotti decide di scrollarsi i sandali dall’ingombro dei corleonesi e di nascondersi dietro a Giovanni Falcone. I collaboratori ci dicono con chiarezza che il brutale omicidio dell’eurodeputato aveva il preciso scopo di impedire la nomina di Andreotti a presidente della Repubblica. E così in effetti fu.
Dopo di che, afferma la recente sentenza Tagliavia, è lo stato a cercare i mafiosi per intavolare la famosa “trattativa” con lo scopo, non tanto di fermare le stragi, ma di salvare la vita ad alcuni politici che erano finiti nella lista nera di Riina e soci.
Tra questi spiccava il nome di Calogero Mannino, ex ministro per il Mezzogiorno, il quale non appena appresa la sentenza di morte a suo carico, si sarebbe attivato, grazie ai propri personali rapporti con il generale del Ros, Antonio Subranni e il capo della polizia Vincenzo Parisi, per correre ai ripari.
Sarebbe nata così quindi la spedizione del generale Mori e del capitano De Donno presso Vito Ciancimino, l’unico considerato in grado di dialogare con i corleonesi, con il fine di “aprire un canale di comunicazione con i capi di Cosa Nostra, finalizzato a sollecitare eventuali richieste”.
Nel frattempo viene assassinato Falcone con metodo terroristico, sventrando l’autostrada, invece che con la più “classica” sventagliata di mitra, costringendo lo stato, impaurito e disorientato, a “farsi sotto”, a scendere a patti.
Non tardano infatti le richieste che, seppur vengano ritenute “esose”, così come raccontano sia Giovanni Brusca che Massimo Ciancimino, ottengono risposte di altro genere.
Il 1° luglio il ministro degli Interni Scotti che, con Martelli, dietro la spinta di Falcone, si era distinto per aver messo in atto una forte azione repressiva contro Cosa Nostra, viene sostituito senza troppe spiegazioni da Nicola Mancino.
Paolo Borsellino, informato delle chiacchierate con Vito Ciancimino, ma non dai carabinieri, viene tolto di mezzo e il progetto omicidiario ai danni di Calogero Mannino già pronto viene accantonato sine die.
L’anno successivo i vertici del DAP vengono improvvisamente sostituiti e al posto di Nicolà Amato e del suo vice Edoardo Fazioli vengono insediati, su espressa richiesta del presidente della repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio (deceduto nel 1996). Nel settembre oltre 300 decreti 41bis non vengono prorogati. A non firmare l’ex ministro Vincenzo Scotti, subentrato a Martelli (spazzato via dalle accuse di Licio Gelli per il “conto protezione”), il quale ha dichiarato ai magistrati di aver assunto quella terribile decisione in tutta solitudine per “rasserenare il clima” e “prevenire altre stragi”.
In realtà documenti scritti provano che vi era stato un intenso carteggio per tutti i primi mesi del 1993 teso proprio a rivedere quella decisione presa da Martelli d’impeto appena dopo la morte di Borsellino, con l’espresso obiettivo di allentare la tensione. Tutto questo mentre continuavano ad esplodere le bombe tra Milano, Firenze e Roma.
Ricapitolando, secondo la prospettazione dell’accusa, lo Stato sarebbe stato vittima di una gigantesca estorsione e così come il commerciante o l’imprenditore terrorizzato, alle intimidazioni violente avrebbe risposto, in una sua componente significativa, pagando. Quindi i mafiosi: Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca e Cinà avrebbero “minacciato il corpo politico dello Stato” così come i mediatori, ritenuti per questo complici dell’estorsione, cioè Mannino, i carabinieri e Dell’Utri, per ottenere benefici che si sarebbero protratti ben oltre il biennio stragista.
Dell’Utri infatti, quale sostituto di Lima, avrebbe fatto da traghettatore di quel primordiale pactum sceleris nella nuova stagione, proprio quando il suo amico Silvio Berlusconi ascendeva al potere.
Diverso il ruolo di Massimo Ciancimino cui è contestato il concorso esterno per aver svolto il ruolo di “postino” tra suo padre e Provenzano, come da sue stesse ammissioni, dunque ritenute credibili.
Per Mancino, invece, l’accusa è di falsa testimonianza perché avrebbe mentito (durante il processo Mori per la mancata cattura di Provenzano, anch’essa presunta parte dell’accordo tra mafia e stato) sulle ragioni relative al suo insediamento lampo al Viminale e sui contatti tra i carabinieri e Ciacimino dei quali sarebbe stato informato da Martelli.
Il professor Conso e l’ex direttore delle carceri Adalberto Capriotti dovranno attendere l’esito del processo per vedere esaminata la loro posizione di accusati per false informazioni al pm circa la vicenda del 41bis.
Si tratta senza ombra di dubbio di un processo senza precedenti. I pm Ingroia, Di Matteo, Sava e Del Bene chiedono al giudice di portare alla sbarra mafiosi di primo rango e uomini delle istituzioni per lo stesso reato. Tra i tanti commentatori, esperti del dito e ignari della luna, si grida allo scandalo, e a parte i vaneggiamenti di Dell’Utri, da più parti si è provato a dire che in fondo se poi la trattativa (in questo caso chiaramente esiste e non è più presunta) ha portato, alla lunghissima, alla decapitazione della mafia siciliana, tutto sommato non è stata così sbagliata. Ecco noi vorremmo tanto che questi machiavellini andassero a sostenere questa teoria in faccia a chi ha perso un padre, una figlia, un fratello, un figlio, un marito, una fidanzata, un amico, uno zio e che li guardassero bene negli occhi per spiegar loro che il fine giustifica i mezzi, anche pensar di poter passeggiare impuniti su cadaveri che resteranno caldi fino a che non sarà resa loro giustizia.

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