di Lorenzo Baldo - 24 febbraio 2012
Palermo. “Poc’anzi lei ha detto che della presunta spaccatura in Cosa Nostra tra un gruppo riconducibile a Salvatore Riina e un gruppo più moderato riconducibile a Provenzano lo ha saputo dopo, attraverso letteratura giornalistica o qualcosa del genere. Io invece le volevo ricordare quello che lei ha dichiarato il 17 settembre del 2009 in occasione di un interrogatorio congiunto prospettato dalle procure di Caltanissetta e Palermo”.
Il pm Di Matteo esordisce così nel controesame all’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, ascoltato come teste della difesa al processo contro Mario Mori e Mauro Obinu per la mancata cattura di Provenzano. La prima contraddizione in cui cade l’ex vicepresidente del Csm riguarda alcune sue dichiarazioni tratte da un vecchio articolo del Giornale di Sicilia del 12 dicembre 1992. All’epoca Mancino aveva tranquillamente parlato di una mafia che stava cambiando “alla vigilia di una scissione come quella che spaccò la camorra indebolendola”. Di Matteo insiste nel rileggere alcuni passaggi di quel verbale di interrogatorio congiunto davanti ai magistrati delle procure di Palermo e Caltanissetta evidenziando la differenza con le odierne dichiarazioni dell’ex ministro. In quel verbale del 2009 Mancino affermava di ricordare perfettamente che nel ’92 era al corrente della esistenza di due correnti all’interno di Cosa Nostra. Cosa di cui non si parlava all’epoca. “Il problema – spiegava Mancino nel 2009 – è che c’era questo contrasto... c’era del resto... andare da Ciancimino che era collegato credo col gruppo di Provenzano e avere da Ciancimino addirittura una lettura indicativa dello stradario di Palermo io personalmente ritengo che un contributo quel Ciancimino diciamo abbia dato al colonnello Mori...”. Di fronte allo stupore dei magistrati che lo interrogavano Mancino replicava laconicamente che di quella spaccatura all’interno di Cosa Nostra se ne parlava nei rapporti della Dia. E soprattutto lo avrebbe saputo tramite un suo consulente (già di Vincenzo Scotti) alquanto noto alle cronache: Pino Arlacchi. “E Arlacchi – aveva specificato Mancino nel verbale del 2009 – contribuiva a formare le relazioni che noi dovevamo presentare in Parlamento”. A distanza di meno di 3 anni, messo di fronte all’evidenza, lo stesso Mancino si rifugia dietro al solito rituale degli smemorati a tempo. “Non ho memoria del ’92 – risponde al pm –, noi avevamo questo consulente che era esperto di attività di tipo mafioso. Arlacchi non era l’ultimo arrivato... addirittura diventa vice segretario generale dell’Onu e viene destinato a Vienna... Io so che c’erano queste due posizioni riferitemi anche da Arlacchi... ma che io possa confermare oggi quello che mi si attribuisce rispetto a quello che ho detto... io posso anche dire che... il tempo passato è tale che una memoria di ferro... per quanto io abbia una discreta memoria non sorregge alla domanda... io non posso dire che nel 1992 c’erano queste due... spaccature....”. Da quel momento l’udienza si protrae attraverso un susseguirsi di “non ricordo” alternati da atteggiamenti arroganti nei confronti del pm che lo interroga. Mancino ricorda di avere avuto contezza di atti processuali (anche relativi allo stesso processo Mori-Obinu) grazie alla lettura di giornali e agenzie. Poi messo di fronte alle dichiarazioni del 2009 nelle quali affermava che oltre ai media si avvaleva di amici e giornalisti che gli fornivano atti depositati Mancino conferma che tra gli amici che gli fornivano documenti e verbali c’era anche lo stesso Piero Milio (ex senatore all’epoca che Mancino era presidente del Senato ed ex avvocato di Mario Mori, deceduto prematuramente il 19 giugno 2010). Successivamente il pm Antonio Ingroia affronta la questione dell’incontro con Paolo Borsellino del 1° luglio al Viminale. Senza uscire dal seminato Mancino ripete a memoria la litania del suo “non ricordo” relativo alla possibilità di aver stretto la mano a Borsellino. Per un attimo sembra quasi ammettere di averlo incontrato. Ma è solo un’impressione. Il solito copione viene recitato ad arte anche questa volta. Ingroia chiede di seguito delucidazioni sulla questione sollevata da Mancino relativa ad un procedimento penale a carico di Scotti (successivamente prescritto) relativo a fondi neri del Sisde utilizzati per acquistare immobili e arredi per uffici del Sisde. Senza scomporsi Mancino racconta di una confidenza ricevuta dall’ex capo della polizia Parisi relativa ad alcuni funzionari che “avevano distratto somme dai Servizi”. Secondo il racconto di Mancino lo stesso Parisi “era riuscito a risolvere il problema attraverso il versamento di quella somma da parte di questi funzionari.... una sorta di quiete attorno al fatto grave.... a un fatto di peculato...” . La vicenda della defenestrazione di Scotti dal ministero dell’Interno a ridosso del mese di luglio del ’92 acquisisce un ulteriore tassello di contraddizione. Mancino afferma di non aver voluto diventare ministro al suo posto e di avere lui stesso insistito successivamente per convincerlo a fare il ministro dell’Interno. Ma le sue dichiarazioni non quadrano con quelle di Scotti che ha sempre raccontato di essere stato a tutti gli effetti rimosso dall’incarico di capo del Viminale senza una apparente ragione logica. Contraddizioni su contraddizioni che riguardano anche le affermazioni di Claudio Martelli relative ai colloqui tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino che lo stesso Martelli avrebbe fatto a Mancino. Che invece nega o non ricorda. Così come per quanto riguarda la questione delle revoche dei 41 bis . Il pm Di Matteo legge di seguito uno stralcio di una relazione della Dia del 10 agosto del ’93 inviata da Mancino a Luciano Violante. “Verosimilmente – si legge nel documento – la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di ‘soluzione politica’ potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un ‘pactum scelleris’ attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme di impunità ovvero, fatto ancor più grave, ad innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo o comunuque per garantisti uno spazio di sopravvivenza”. Messo di fronte all’evidenza Mancino prima fatica a ricordare quel documento. Nella relazione si parla esplicitamente dell’”eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’art. 41 bis”, che “potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla ’stagione delle bombe’”. Nicola Mancino tergiversa, quasi infastidito ricorda che delle revoche di quella serie di 41 bis nel ’93 ne aveva saputo da un articolo de La Sicilia. Perfino il presidente della IV sezione penale interviene per domandare se di quella relazione della Dia se ne fosse parlato in Consiglio dei Ministri. “Non se ne è discusso...” è la risposta monocorde dell’ex presidente del Senato. Della Trattativa? “Mai saputo” risponde successivamente Mancino. Probabilmente la memoria dell’ex senatore gioca brutti scherzi. Ma questa volta l’ex ministro dell’Interno non ha dalla sua parte i suoi ex colleghi. I cui ricordi non coincidono con i propri e dovranno necessariamente essere messi a confronto.
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