di Lorenzo Baldo - 23 gennaio 2012
“Io non sapevo neanche dov’era via D’Amelio. Ho parlato per paura: mi torturavano, mi picchiavano, mi facevano morire di fame”. Le dichiarazioni del “falso” pentito Vincenzo Scarantino tornano a smuovere le acque torbide che avvolgono i misteri della strage del 19 luglio 1992. L’interrogatorio del piccolo criminale di borgata ripreso oggi dal quotidiano la Repubblica è del 28 settembre 2009 e fa parte della documentazione allegata alla memoria conclusiva relativa alle nuove indagini sulla strage di via D’Amelio. Il documento (depositato lo scorso mese di settembre dalla procura di Caltanissetta) è stato acquisito dalla procura generale diretta da Roberto Scarpinato che ha successivamente presentato alla Corte di Appello di Catania l’istanza di revisione dei processi “Borsellino I” e “Borsellino bis” per alcuni imputati condannati all’ergastolo e a pene minori.
Il 28 settembre 2009 lo stesso Scarantino era già stato messo a confronto con il collaboratore catanese Giuseppe Ferone, ma in quell’occasione il picciotto della Guadagna si era avvalso della facoltà di non rispondere. Ferone è l’autore di una lettera inviata alla Procura di Caltanissetta nella quale aveva dichiarato di aver conosciuto Vincenzo Scarantino durante un periodo comune di detenzione nel ‘99 nel carcere di Velletri e di aver raccolto lo sfogo dello stesso. A detta di Ferone Vincenzo Scarantino avrebbe protestato la sua innocenza in relazione alla strage e avrebbe inveito nei confronti di Francesco Andriotta che lo aveva convinto a concordare i termini delle false dichiarazioni che entrambi avrebbero dovuto rendere ai magistrati con il fine di accreditarsi come collaboratori di giustizia. Nel documento dei magistrati nisseni si legge che in sede di confronto con Scarantino Giuseppe Ferone precisava “di aver avuto conferme dallo stesso Andriotta, nel febbraio 2009, di quanto accaduto (in particolare, quest’ultimo si vantava di aver ‘giostrato’ come una ‘marionetta’ lo Scarantino) e di aver raccolto nel 1999 un ulteriore sfogo da parte dello Scarantino che si augurava che tale ‘Sparino’ (soggetto identificabile probabilmente in Gaspare Spatuzza) collaborasse con l’A.G. e ristabilisse quindi la verità dei fatti”. Dopo quel confronto a senso unico Scarantino - nella qualità di indagato per il reato di calunnia - sottoposto nuovamente ad interrogatorio, si decideva finalmente a ritrattare le dichiarazioni rese nell’ambito dei processi per la strage di via D’Amelio (prima della ritrattazione del 1998, a sua volta ritrattata il 19 gennaio 2002). Davanti ai magistrati nisseni Vincenzo Scarantino dichiarava “di aver a suo tempo ‘collaborato’ perché stanco di stare in carcere e perché gli era stato fatto credere dalla polizia che alcune conversazioni avute dopo la strage con Raffaela Accetta, nel corso delle quali egli aveva espresso solo delle supposizioni sulla strage e in cui aveva parlato di una 126 bordeaux rubata, fossero state intercettate e quindi potessero essere utilizzate contro di lui per affermarne la responsabilità in ordine alla strage”. Il picciotto della Guadagna sottolineava che “era tutto falso quanto dichiarato dall’Andriotta (con il quale non si era affatto messo d’accordo) che, durante il periodo di comune detenzione a Busto Arsizio, non aveva mancato di pressarlo psicologicamente, parlandogli di avvenute uccisioni in carcere”. Scarantino continuava poi il suo racconto affermando di aver subito violenze in carcere. “Per non farmi mangiare – aveva riferito ai magistrati –, mi facevano trovare mosche nella pasta, una volta a Pianosa sentì due guardie che parlavano... un tipo con i baffi, un brigadiere siciliano, diceva all´altro: ‘Piscia, piscia’. Una volta, quel brigadiere mi alzò pure le mani. Un´altra volta, dopo che andai dal dentista, mi fecero credere che avevo l´Aids, mentre si trattava di una semplice epatite”. L’ex picciotto ribadiva quindi di avere sostenuto diversi colloqui investigativi con il dott. Arnaldo La Barbera il quale gli diceva “che doveva confessare, anche perché altrimenti avrebbe smentito un collaboratore (e cioè il Candura)”. Vincenzo Scarantino aggiungeva successivamente “di essersi conseguentemente deciso a ‘confessare’ e di essersi ‘adattato’ a indicare al P.M. quello che il dott. La Barbera gli faceva intendere volesse sapere. “Lui (Arnaldo La Barbera, ndr) mi disse: ‘Tu devi confessare’. Ma io gli ripetevo: ‘Non so niente’. Lui insisteva: ‘Tu devi diventare come Buscetta, importante come Buscetta. E allora, poco a poco, io sono entrato nel personaggio, cominciavo ad accusare tutti. Avevo 27 anni, stavo male. La Barbera mi disse: ‘Ti diamo 200 milioni, esci dal carcere e non ci entri più’...”. Ecco allora che Scarantino iniziava a fare i nomi: “Mi venivano suggeriti, non è che me li dicevano in modo esplicito. Si parlava e mi dicevano: ‘Ma questo c´era, ma quest´altro c´era pure?’. Il dottore La Barbera mi faceva capire…. E così m´inventai la storia di una riunione, volevano trovare i colpevoli attraverso me. E io glieli ripetevo”.
Secondo la ricostruzione di Scarantino prima degli interrogatori con i magistrati veniva “imbeccato” dai poliziotti. “Prima di ogni incontro vedevo La Barbera, quando poi arrivavano i magistrati non riuscivo mai a ritrattare”. Quando iniziarono le udienze del processo per la strage di via D´Amelio cominciò la “recita” del picciotto: “Prima, un certo Michele leggeva i miei verbali, e io li mettevo in memoria.. Ma io ci stavo male, speravo sempre che potesse uscire un pentito che mi smentiva”. Nel 1995 Scarantino sembra sul punto di dire la verità senza però riuscirci: “Arrivò il dottore Bo. Gli dissi: io voglio tornare in carcere. Il rimorso mi stava mangiando il cervello. Non riuscivo a stare tranquillo. Il dottore Bo mi disse: ‘Va bene ti portiamo in carcere’. Iniziò una discussione. Un poliziotto che era con lui mi acchiappa per il collo e mi punta la pistola addosso. Gli altri poliziotti che erano là gli dicevano: no, queste cose no davanti ai bambini”.
Nell’inchiesta relativa al possibile depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino rivestono ora un peso non indifferente. Ma allo stesso tempo sono decisamente molto “scivolose”. Il contenuto delle “confessioni” dei suoi compari Salvatore Candura e Francesco Andriotta verte sempre sulle minacce e pressioni che avrebbero ricevuto dal pool Falcone e Borsellino per seguire una pista precostiuita. I magistrati nisseni che indagano da alcuni anni su questi filoni investigativi sanno di muoversi su un campo minato. Probabilmente entro i prossimi mesi dovranno decidere se archiviare la posizione dei tre ex componenti del pool Mario Bo, Salvatore La Barbera e Vincenzo Ricciardi (Arnaldo La Barbera è deceduto nel 2002) o se rinviarli a giudizio con l’accusa infamante di essere stati tra i principali protagonisti di un depistaggio di Stato.
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