di Davide de Bari
E’ la sera del 23 settembre 1985, Giancarlo Siani sta uscendo dalla redazione de “Il Mattino”, dopo una lunga giornata di lavoro tra notizie cercate in giro e pagine scritte. Sale a bordo della sua Citroen Mèhari verde (simbolo di memoria di quel giornalismo libero) e si avvia verso casa. Il giornalista sta parcheggiando la sua auto quando due uomini lo freddano con numerosi colpi d’arma da fuoco calibro 7.65mm. I colleghi in redazione vengono a sapere dell’omicidio tramite la classica telefonata alla polizia per sapere se ci sono notizie da segnalare. Dal 113 rispondono che “è stato ammazzato Siani nella sua auto a piazza Leonardo al Vomero”. I compagni di lavoro si recano sul posto e vedono Giancarlo riverso sul volante della sua auto con la guancia sinistra rigata di sangue.
Una “penna” da fermare
Giancarlo Siani è un ragazzo che ha deciso di fare il giornalista per raccontare ciò che accade nella sua terra. Un ragazzo con una forte passione per la scrittura e per le inchieste, con il sogno di ottenere, da un giorno all’altro, un contratto e un lavoro stabile. Un giornalista pronto a mettere a rischio la propria vita per lottare contro un sistema di violenza e morte. Siani è un “giornalista-giornalista” che ricerca le notizie scomode e si contrappone al classico modello di giornalista-impegnato. Scrive senza condizionamenti la realtà di una Napoli contaminata dalla Camorra e dalla corruzione politica, in particolare a Torre Annunziata. “Una città con circa 60.000 abitanti, un apparato produttivo in crisi, oltre 500 cassintegrati e la più alta percentuale di iscritti al collocamento - scrive lui stesso in un articolo per la rivista “Osservatorio sulla camorra” - Un ottimo terreno per reclutare disoccupati e trasformali in killer”.
Sono gli anni della guerra di Camorra dove a confrontarsi sono i due schieramenti: la nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e le famiglie emergenti dei Nuvoletta, Alfieri e Bardellino, affiliate a Cosa nostra. Quest’ultima avrà la meglio sulla NCO, grazie alla preziosa alleanza del boss di Torre Annunziata, Valentino Gionta, camorrista in ascesa con fortissimi legami nel mondo della politica ed dell’imprenditoria. In un articolo sul business del mercato ittico, Siani descrive così le infiltrazioni criminali: “Tra i soci delle due cooperative che lavorano al mercato del pesce, spicca un nome inquietante: Gemma Donnarumma, moglie di Valentino Gionta. È questo il modo pulito per intascare il ricavato delle attività del mercato”. E ancora: “Con il sistema delle cooperative, Gionta aveva dato via a altre imprese di camorra. Inevitabile l’infiltrazione nel sistema degli appalti”.
Siani ha ben chiaro che la Camorra e i politici camminano a braccetto. Sarà proprio un articolo a condannarlo a morte. Il 10 giugno 1985, infatti, “Il Mattino” pubblica la cronaca di Siani dell’arresto di Valentino Gionta. “Potrebbe cambiare la geografia della Camorra dopo l’arresto del superlatitante Valentino Gionta. Già da tempo, negli alimenti della mala organizzata e nello stesso clan dei Valentini di Torre Annunziata si temeva che il boss venisse “scaricato”, ucciso o arrestato. - scrive Siani - Dopo il 26 agosto dell’anno scorso il boss di Torre Annunziata era diventato un personaggio scomodo. La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di “Nuova famiglia”, i Bardellino”.
E’ così che i Nuvoletta decidono la morte di Giancarlo, l’unico modo per cancellare l’onta di quella “offesa”. Anche se un altro pentito, Gabriele Donnarumma, riferirà che dietro la decisione dei Nuvoletta, di uccidere Siani, vi sarebbe stato addirittura l’ordine diretto dello “zio”, ovvero Totò Riina. “Lo “zio”- dice Donnarumma - dalla Sicilia non accettava che, nei confronti di mafiosi - tali eravamo noi ed i Nuvoletta - si dicessero cose del genere e perciò dovevamo uccidere il giornalista”.
Verità per Giancarlo
Dopo otto anni dall’omicidio, nel 1993, arriva la svolta nelle indagini. Grazie alla collaborazione di Salvatore Migliorino, il magistrato della Dda di Napoli, Armando D’Alterio ha riaperto le indagini. Per l’omicidio sono condannati i mandanti (Lorenzo e Angelo Nuvoletta e Luigi Braccanti) e gli esecutori (Ciro Cappuccio e Armando Del Core). Mente la posizione dell’ex sindaco di Torre Annunziata, Domenico Bertone, viene archiviata. Il boss Gionta sarà prima condannato e poi assolto in vari processi fino all’assoluzione definitiva della Cassazione nel 2003.
Tuttavia, quella verità processuale, alla quale si è giunti con difficoltà, non ha del tutto cancellato la convinzione che dietro quell'omicidio ci fosse anche altro. Lo stesso pm Armando D’Alterio, il sostituto alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli che ha riaperto le indagini sul caso, ha dichiarato in passato che “quell’articolo fu solo la causa scatenante dell’omicidio”. E sono molteplici le domande che restano aperte a trentatrè anni di distanza dal delitto. Di cosa avrebbe voluto parlare con il suo ex direttore de l’“Osservatorio sulla camorra”, Amato Lamberti, a cui telefonicamente ha chiesto un incontro per parlare di cose che “al telefono è meglio non dire”? Elementi che portano a domandarsi: che cosa aveva scoperto Siani? Perché era preoccupato? E dove è finito il materiale da lui raccolto? Una questione che sembra ricordare quanto accaduto anche in altri misteri italiani, come la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino o il trafugamento di documenti dalla cassaforte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Giancarlo Siani, il giornalista che scriveva contro la Camorra
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