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di Francesco Ferrigno
Rifiuti pericolosi e non pericolosi, spesso provenienti dalle industrie del Nord Italia, smaltiti illegalmente nelle campagne e nei lagni dell’agro casertano e napoletano: un vero e proprio disastro ambientale. Un reato riconosciuto anche dalla Cassazione, che a maggio ha condannato in via definitiva i tre fratelli Pellini, imprenditori di Acerra, in provincia di Napoli. Finanza e magistratura si sono messi alla ricerca di ciò che restava del loro tesoro, sfuggito ai precedenti sequestri, accumulato grazie alla gestione illecita dei rifiuti. Così nelle scorse ore le autorità hanno sequestrato l’ennesima “cassaforte di famiglia”, ovvero oltre 2 milioni di euro in denaro contante e titoli di stato. Tutto custodito in una società fiduciaria del centro di Milano e tutto intestato alle mogli dei Pellini.

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Si tratta della seconda fase dell’operazione scattata il 14 febbraio 2017 cui hanno partecipato i militari del Nucleo di polizia tributaria di Napoli, agli ordini del colonnello Giovanni Salerno, quelli dell’Ufficio operazioni, guidati dal tenente colonnello Agostino Tortora, e le fiamme gialle del Gruppo d’Investigazione sulla Criminalità Organizza (Gico), dirette dal tenente colonnello Giuseppe Furciniti. A coordinare il tutto a febbraio è stata la Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) di Napoli. Il valore dei beni a cui sono stati apposti i sigilli ammonta ad oltre 200 milioni di euro ed ha colpito i fratelli Giovanni, Salvatore e Cuono Pellini. Il sequestro ha riguardato 250 fabbricati, 68 terreni, 50 tra autoveicoli e automezzi industriali, 3 elicotteri, 49 rapporti bancari: i beni si trovano a Roma, Bolzano, Salerno, Latina e Cosenza. Di capitali liquidi, però, neppure l’ombra.

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Stando alle inchieste, presso gli impianti del gruppo Pellini venivano stati gestiti in maniera illecita circa un milione di tonnellate di rifiuti. Questi ultimi, in pratica, venivano “declassificati” e smaltiti mediante sversamento nei Regi Lagni, tombati o messi in cave adibite a vere e proprie discariche. “Il processo penale conclusosi con la condanna dei Pellini – hanno scritto in una nota i procuratori Giovanni Colangelo e Giuseppe Borrelliha messo in luce un sistema criminale che, per anni, aveva movimentato e smaltito illegalmente tonnellate di rifiuti pericolosi e non pericolosi, spesso provenienti dalle industrie del Nord Italia, direttamente nelle campagne e nei lagni dell’agro casertano e napoletano ed aveva contribuito ad alimentare l’economia dei clan camorristici operanti in quelle aree”.
Secondo l’Antimafia grazie alle indagini è stato possibile dimostrare che grazie alla gestione illecita di circa un milione di tonnellate di rifiuti i Pellini hanno effettuato importanti operazioni economiche ed immesso ingenti capitali nei circuiti finanziari, realizzando un effetto moltiplicatore. I guadagni derivanti dal disastro ambientali sono serviti a creare e a portare avanti altre società del gruppo.

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Nel frattempo la macchina della giustizia è andata avanti e a maggio 2017 è arrivata la conclusione del processo scaturito dall’inchiesta “Carosello – Ultimo Atto”, scattata a gennaio 2006. Il procedimento ha portato alla condanna in primo grado degli imprenditori acerrani per aver posto in essere, tra il 1997 e il 2005, reati riguardanti lo smaltimento di rifiuti anche pericolosi. Successivamente la IV sezione della Corte d’Appello di Napoli, nel 2015, accogliendo l’appello del pubblico ministero, ha ritenuto configurato il reato di disastro colposo. Il 18 maggio scorso, infine, la Corte di Cassazione ha confermato le condanne per disastro ambientale: tutti e tre i fratelli Pellini dovranno scontare 7 anni di carcere.

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Si arriva così a pochi giorni fa quando la guardia di finanza ha infine individuato dove si trovavano i capitali liquidi che mancavano all’appello. Attraverso mirati accertamenti ed esaminando la documentazione acquisita presso alcune banche le fiamme gialle sono arrivate al centro di Milano. Qui, presso una società era stato acceso dai Pellini un mandato fiduciario. Tutto era stato intestato alle mogli degli imprenditori della provincia partenopea. Nulla è servito: la guardia di finanza ha messo i sigilli a circa 2,2 milioni di euro tra denaro contante e titoli di stato.

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