di Aaron Pettinari
Così torna in auge l'alternativa al pentitismo
La notizia non è di poco conto. Il boss degli Scissionisti (i narcos di Scampia, ndr), Cesare Pagano (in foto), al processo d'Appello per alcuni delitti commessi nel 2005, ha parlato apertamente di “dissociazione” ammettendo di “essere il mandante di questi omicidi”. “Chiedo perdono alle famiglie e mi dissocio dalla camorra” ha detto il capomafia. Nessuna collaborazione con la giustizia, dunque, ma solo il riconoscimento delle proprie responsabilità.
Pagano, assistito dagli avvocati Saverio Senese e Luigi Senese, ha anche annunciato di voler scrivere un memoriale.
Sono due le interpretazioni che si potrebbero dare a questa scelta di confessare gli omicidi. La prima è che si tratti di un tentativo di evitare la collaborazione. La seconda, e gli inquirenti non lo escludono, che lo stesso Pagano voglia lanciare un segnale all'esterno in un momento in cui il clan si trova in difficoltà, colpito da inchieste, processi e pentimenti. La “confessione” di Pagano, segue quella di altri tre esponenti di spicco degli scissionisti, Gennaro Marino, Arcangelo Abete e Ciro Mauriello, che sempre in aula hanno ammesso la partecipazione al duplice omicidio Montanino Salierno. Un delitto che di fatto scatenò la faida per la droga con il clan Di Lauro che portò più di 50 morti tra il 2004 e il 2005.
“Dissociazione” e mafia, non è la prima volta
Quel che è certo è che in ambienti di Camorra non è la prima volta che si parla di “dissociazione”.
Nei primi anni '90 alcuni imputati come Angelo Moccia, esponente della famiglia di Afragola, che con Pagano ha in comune uno degli avvocati, Saverio Senese, era tra i sostenitori di questa forma alternativa alla collaborazione con la giustizia.
Non solo. Nel febbraio 2013, nel corso del processo dell'ex deputato Pdl Nicola Cosentino, il collaboratore di giustizia Dario De Simone, parlò proprio di una trattativa tra lo Stato ed i clan camorristi della Campania, proprio in materia di dissociazione. “Nello stesso periodo in cui 'Cosa Nostra' aveva aperto una trattativa con lo Stato – aveva detto il pentito - anche tutti i clan camorristi della Campania, compresi noi Casalesi avevamo instaurato una trattativa per una dissociazione, i cui referenti erano il ministro della giustizia Giovanni Conso ed il vescovo di Acerra don Riboldi”
Secondo De Simone, quindi, vi era un “papello”, come quello che Riina presentò allo Stato durante la trattativa del 1992 e in quegli anni esponenti di vari clan, tra cui i Casalesi, si erano resi disponibili a dichiarare la propria uscita dall'organizzazione allo scopo di ottenere benefici giudiziari e, in particolare, evitare l'ergastolo.
Da sempre la dissociazione è stata una delle richieste principali di Cosa Nostra, che a metà degli anni ’90, intimorita dalla potenza devastante dei collaboratori di giustizia, avrebbe preferito una semplice allontanamento informale da parte dei detenuti mafiosi in cambio di benefici carcerari, più o meno come era previsto negli anni ’80 per gli appartenenti alle Brigate Rosse. Di dissociazione si parlava, appunto, nel “papello” di Riina, ma la proposta fu rilanciata anche in un secondo momento dal capomafia Pietro Aglieri.
Quando si mosse la politica
In particolare quest'ultimo, attraverso alcuni sacerdoti, cercò di poter comunicare a esponenti delle istituzioni la ferma volontà da parte di alcuni mafiosi di volersi consegnare, chiedendo allo Stato di poter iniziare una vita nuova senza essere obbligati ad accusare i compagni.
La discussione sulla “dissociazione” arrivò persino in Parlamento. Nell'agosto 1993 (a breve distanza dalle stragi di Firenze, Roma e Milano, ndr) Luciano Violante, allora presidente della Commissione antmafia, intervistato dal settimanale Radio corriere Tv, oltre a parlare di “bombe del dialogo che vogliono lanciare un messaggio” diceva: “Dobbiamo andare avanti con forza, perché c’è un obiettivo successivo da raggiungere. Cercare di portare fuori dell’associazione mafiosa i poveri cristi, quelli che, per poche lire passano dal contrabbando di sigarette all’omicidio, alla strage. Noi dobbiamo spaccare la mafia, come abbiamo fatto con i terroristi, ma senza chiedere le accuse ai correi. Dobbiamo poter dire loro: dichiarate i vostri delitti e uscite dalla mafia, avrete una pena ridotta. Separate le vostre responsabilità da quelle dei capi”.
Caso vuole che nell'agosto 1996 l'ex parlamentare Melchiorre Cirami, che nel corso della sua vita politica è transitato dalla Casa delle Libertà, all’Udeur, all’Udc di Cuffaro e poi tornato nel partito di Berlusconi, fu tra i firmatari di un provvedimento che prevedeva appunto una serie di benefici per i mafiosi che avessero ripudiato Cosa nostra. Nel dl si concedevano sconti di pena fino a un terzo – anche in presenza di condanne definitive-, la sospensione dei procedimenti di prevenzione in corso e una serie di misure alternative al carcere. La normativa non era applicabile, però, ai mafiosi condannati per omicidi. Di questo Cirami ha parlato anche di recente al processo trattativa Stato-mafia.
Dissociazione nel 2000
La questione della “dissociazione” è poi tornata in auge nel 2000 quando otto boss mafiosi, tra cui
Pietro Aglieri, Nitto Santapaola, Pippo Calò, Giuseppe Farinella e Piddu Madonia avevano fatto sapere che volevano dissociarsi chiedendo una sorta di legge ad hoc. A parlarne è stato l'ex magistrato Alfonso Sabella, all'epoca al Dap, che si oppose al progetto assieme all'ex procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli e il ministro di allora Fassino. La cosa però si ripropose di nuovo nel 2001 e questa volta a chiedere la dissociazione si erano ritrovate le varie mafie italiane: Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita. A fare da ambasciatore di una simile iniziativa era stato designato Salvatore Biondino, uomo di fiducia di Totò Riina, nonché capo mandamento di San Lorenzo, legato ai Servizi Segreti.
Quella “dissociazione” di Filippo Graviano
Di “dissociazione” parlò poi, nel 2009, anche Filippo Graviano, oggi al 41 bis e condannato per le stragi del 1993, quando fu interrogato dai pm di Firenze. “Da parte mia è una dissociazione verso le scelte del passato che non riguardano il processo svoltosi a Firenze. Oggi sono una persona diversa – disse ai magistrati - Nel mio passato al primo posto c'era il denaro, oggi c'è la cultura. Sono ragioniere, ho sostenuto 13-14 esami di Economia, sono iscritto alla Sapienza a Roma. Sento l'esigenza di mettere una pietra sopra alle scelte del passato e di impostare un futuro di vita nella legalità. Nella mia condizione, anche una lettera che non mando o un saluto che non faccio sono scelte di legalità”. Ma quando gli stessi effettuarono domande sulle stragi e su Cosa nostra il capomafia ritornò nel proprio “omertoso silenzio”.