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Nei locali sottoposti a sequestro, le intimidazioni perpetrate ai danni degli amministratori giudiziari

La Direzione Distrettuale Antimafia, in collaborazione con la Dia di Roma, ha smantellato una “locale” di 'Ndrangheta operante sul territorio laziale e completamente indipendente dalla costola madre situata in Calabria.
L’organizzazione criminale diretta da Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, il primo intento a condurre le attività prettamente criminali dell'organizzazione, il secondo quelle economiche, sarebbe direttamente collegata alla cosca di Cosoleto.
Lo stesso Antonio Carzo, inconsapevole di essere intercettato, conferma l’autonomia concessa dalla cosca Calabrese: “Io ho la raccomandazione di quelli sotto - precisa Canzo -. Quando siamo stati là gli ho detto: vi ringrazio dell’onore che mi avete dato… la responsabilità me la sono presa tutta, e non da ora”.
Una circostanza favorita anche dagli equilibri che, negli anni, hanno permesso alle ‘ndrine di acquisire un ruolo sempre maggiore tra le organizzazioni presenti a Roma. Un concetto ripreso anche dal giornalista Vincenzo Imperitura del quotidiano LaC News24 attraverso le parole di Carzo: “A Roma c’è posto per tutti - rassicura Canzo -. Noi qua e gli Spada là; loro si fanno i cazzi loro, noi ci facciamo i nostri”.

Un lumino mortuario per le intimidazioni
Anche se l’impronta criminale sul territorio romano assume una connotazione soprattutto di natura imprenditoriale, come tradizione vuole, non mancano i messaggi intimidatori indirizzati ai vari amministratori giudiziari chiamati a gestire le attività commerciali sottoposte a sigilli. Tra le attività in possesso del clan, tutte intestate a dei prestanomi, il bar Pedone, il Caffè Cellini, il bar Clementi e il Cafè de Paris, quest'ultimo, adornato con lumino mortuario in segno di benvenuto per gli amministratori giudiziari.
Secondo gli inquirenti, Vincenzo Alvaro non sarebbe minimamente intenzionato ad interrompere gli affari legati alle attività commerciali. “Nonostante gli interventi giudiziari - scrivono i giudici - le suddette attività rimanevano però sempre nella disponibilità di Vincenzo Alvaro che le gestiva tramite prestanome spendendo abbondantemente ed in modo vistoso la forza di intimidazione mafiosa”. 

Difatti, il primo amministratore giudiziario viene licenziato perché non si presenta a lavoro. Il secondo, Aldo Sandroni, licenziato perché sospettato di essere controllato dal clan. Infine, il terzo amministratore giudiziario, Luca Picone
Picone, conseguentemente a degli ammanchi di denaro registrati nelle casse delle società, decide di licenziare il presunto autore. Tuttavia, lo stesso Picone si vede costretto a ridimensionare la vicenda perché, come racconta ai pm: “Ho una moglie e due figli e voglio stare tranquillo vista la consapevolezza delle persone con le quali ero chiamato a trattare”.

Foto © Imagoeconomica

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