Quella di Lea Garofalo e di sua figlia Denise Cosco è una storia complessa. Relazioni familiari, storie di clan, spaccio di droga e infiltrazioni ‘ndranghetiste in Lombardia. Il contesto è simile a quello di altre cellule criminali che si sono insediate nel nord del Paese. Un trasferimento che porta con sé i disvalori mafiosi, l’omertà e le faide cominciate a mille chilometri di distanza, più precisamente a Petilia Policastro in provincia di Crotone, la stessa provincia da cui è partita la famiglia Grande Aracri e che ha colonizzato la bassa emiliana. Ma è anche una storia d’amore, riscatto e indomabile coraggio.
Lea Garofalo ha reciso i suoi legami con la ‘Ndrangheta liberando sua figlia e avere la possibilità di continuare a vivere da donna libera. Nel 2013, quando finalmente Lea ha potuto ricevere un funerale, dagli altoparlanti sua figlia (che da anni vive sotto protezione) l’ha salutata dicendo: “Per me è un giorno molto triste, ma la forza me l'hai data tu. Grazie per quello che hai fatto per me, grazie per darmi una vita migliore. Se è successo tutto questo è solo per il mio bene e non smetterò mai di ringraziarti. Ciao mamma”.
La Storia
Lea Garofalo nacque il 24 aprile 1974 a Petilia Policastro, in Calabria. Era ancora in giovane età quando la sua vita venne segnata dall'uccisione del padre, Antonino, nella cosiddetta “faida di Pagliarelle”.
A quattordici anni si innamorò del diciassettenne Carlo Cosco, con cui, il 4 dicembre del ’91, darà alla luce una bambina: Denise.
La giovane decise di stabilirsi con lui a Milano ignara del fatto che l'uomo, divenuto anche suo marito, era affiliato alla ‘Ndrangheta e che il loro matrimonio servì solo per aumentare l'influenza del coniuge all'interno della cosca Garofalo. L’affiliazione segreta di Carlo Cosco venne rivelata nel 1996 quando lo stesso venne arrestato per traffico di stupefacenti, assieme ad alcuni componenti della sua famiglia. Durante un colloquio in carcere, Lea disse al compagno che non voleva più portare avanti il rapporto e gli comunicò la sua volontà di portare via la figlia.
Capì, inoltre, che se avesse voluto dare un destino migliore a sua figlia avrebbe dovuto andarsene e rifarsi una vita. Fu così che madre e figlia abbandonarono Milano, ma le cose iniziarono a peggiorare sempre più. Vissero in pace solo per due anni prima che la mafia le trovasse nuovamente. Nel 2002, a seguito dell’incendio della propria auto, Lea capì che i Cosco erano sulle loro tracce. Comprese di essere in serio pericolo e fu questo che la spinse a rivolgersi ai Carabinieri per raccontare tutto ciò di cui era a sua conoscenza, entrando così nel programma di protezione. Grazie alle sue dichiarazioni i pm ricostruirono l'attività del traffico di droga condotta dalla famiglia Cosco e gli antefatti dell'omicidio di Antonino Comberiati (uomo di mafia ucciso il 17 maggio ‘95), denunciando il ruolo svolto dal fratello di Lea, Floriano, e dal cognato Giuseppe Cosco (fratello di Carlo) alias “Smith”.
Pochi anni dopo (nel giugno del 2005) il fratello della donna morì, ucciso probabilmente per le scelte della sorella, e, nello stesso periodo, uscì di prigione l'ex compagno Carlo Cosco che cercò di rintracciare sia Lea che Denise tramite un cugino Carabiniere.
A seguito di svariati trasferimenti, madre e figlia si stabilirono a Campobasso, ma nel 2006 venne revocata la misura di protezione di Lea perché, secondo l'ordinanza del magistrato, l'aiuto fornito dalla stessa non fu significativo. La donna si rivolse così prima al TAR, che confermò la revoca, e successivamente al Consiglio di Stato, che le diede ragione integrandola nuovamente nel programma di protezione nel 2007. Ma la sua situazione economica, psicologica e umana era molto instabile e un giorno qualcosa si spezzò. Nell'aprile del 2009 decise improvvisamente di rinunciare ad ogni tutela e di tornare a Petilia Policastro.
La giovane madre, poi, non riuscendo più a garantire un sostentamento né a sé stessa né alla figlia, riallacciò i rapporti con Carlo Cosco il quale trovò una nuova abitazione per Lea e Denise a Campobasso. Secondo gli inquirenti fu proprio il totale stato di scoramento che portò Lea a riavvicinarsi a Cosco, e la prova più evidente di questa condizione è una lettera che venne indirizzata da Lea all'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (datata il 28 aprile 2009): “Oggi mi ritrovo, assieme a mia figlia, isolata da tutto e da tutti, ho perso tutto, la mia famiglia, ho perso il mio lavoro (anche se precario) ho perso la casa, ho perso i miei innumerevoli amici, ho perso ogni aspettativa di futuro, ma questo lo avevo messo in conto, sapevo a cosa andavo incontro facendo una scelta simile. Quello che non avevo messo in conto e che assolutamente immaginavo, e non solo perché sono una povera ignorante con a malapena un attestato di licenza media inferiore, ma perché pensavo sinceramente che denunciare fosse l'unico modo per porre fine agli innumerevoli soprusi… La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi spetta, dopo essere stata colpita negli interessi materiali e affettivi arriverà la morte!”. E la morte purtroppo arrivò, inesorabile.
Il 20 novembre 2009 madre e figlia partirono alla volta di Milano, convinte da Carlo Cosco con una scusa: si propose di aiutare Denise (vista l'evidente difficoltà economica che assieme alla madre stava vivendo) e Lea non l'avrebbe mai lasciata andare da sola. Una volta arrivate, Carlo accompagnò la figlia a casa del fratello Giuseppe per far visita agli zii e ai cugini, così che poteva restare solo con la madre per parlare. In realtà Cosco fece salire Lea, che lo stava attendendo all'Arco della Pace, in un appartamento in piazza Prealpi 2. All'interno si consumò la barbarie. Lei venne prima picchiata e strangolata con una corda da tenda, poi il cadavere incendiato più volte in un fusto vicino al cimitero di Monza e, infine, le ceneri sparse in un punto rivelato solo tempo dopo da Carmine Venturino, ex fidanzato di Denise e complice dell’ex marito.
Nel dicembre del 2014, la Prima sezione penale della suprema Corte di Cassazione, presieduta da Maria Cristina Fiotto, ha confermato i quattro ergastoli emessi dalla Corte d'Assise d'Appello di Milano il 25 maggio 2013 a carico dei cinque imputati: Carlo e Vito Cosco, Rosario Curcio e Massimo Sabatino, mentre per l’ex fidanzato Carmine Venturino la condanna definitiva a 25 anni di carcere (in ragione alla sua collaborazione avvenuta nell'estate del 2012).
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- Luca Grossi