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Il Crimine, l’evoluzione del clan e i c.d. “Invisibili” a disposizione della ‘Ndrangheta, nelle dichiarazioni del collaboratore Luigi Bonaventura

Unilateralità e mondi di mezzo della ‘Ndrangheta. Sono questi gli argomenti “clou” raccontati ieri durante i primi interrogatori svoltisi nel corso dell’udienza del processo “Rinascita-Scott”, presso l’aula bunker di Lamezia Terme. A rispondere alle domande del sostituto procuratore della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci, tra gli altri, il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura (49 anni), in passato elemento di spicco della famiglia Vrenna-Bonaventura di Crotone. Fra le tante cose, quest’ultimo ha raccontato di avere iniziato a fare parte della 'Ndrangheta appena nato, con la dote di giovane d'onore per diritto di successione e poi battezzato picciotto d'onore, camorrista di ferro e di sangue (in quanto reo di omicidi) e sgarrista. Era ormai prossimo alla “Santa” Luigi Bonaventura, quando nel 2005 decise di dissociarsi dall’organizzazione criminale per poi collaborare con la giustizia da libero e senza alcuna condanna (il 26 febbraio 2007). Dinnanzi alla corte si è definito "figlio di mamma 'Ndrangheta" spiegando come da sempre si sia imbevuto di cultura mafiosa, odio e di faide tra famiglie. "All'inizio, quando ho deciso di collaborare con la giustizia - ha detto Bonaventura - non riuscivo a fare i verbali perché non riuscivo a fare i nomi delle persone che dovevo accusare". Ma al di là del suo “curriculum” a fare scalpore sono ben altre dichiarazioni.

Famiglia e potere: il Crimine nel sangue
Luigi Bonaventura ha anche posto l’attenzione su uno dei ruoli apicali negli assetti interni della ‘Ndrangheta: il “Crimine”. Il suo compito è quello di custodire le regole dell’organizzazione criminale calabrese i cui vertici cambiavano nel corso degli eventi, così come cambiava la località in cui si trovava la carica di Crimine.
Il giovane collaboratore aveva anche forti legami di parentela con il clan di cui era membro. Suo nonno è Luigi Vrenna, alias "U zirru", che negli anni ’60 era parte del “Crimine”, mentre suo zio è Giovanni Bonaventura, un secondo padre al punto da aver condiviso con lui un periodo di guerra di mafia. “Nel 2001 il capo del clan era mio zio Giovanni Bonaventura e fu lui in tale anno ad affidarmi la reggenza del clan – ha detto il collaboratore –, […] La mia famiglia è stata storicamente alleata a quella dei De Stefano di Reggio Calabria, ma nella ‘Ndrangheta non c’è un capo assoluto, ma ci sono delle famiglie più importanti che dettano la linea a tutte le altre”. Insomma, un quadro fatto di legami potenti.

Il mondo di mezzo: gli “Invisibili”
All’interno dell’organizzazione criminale vi è un livello ricoperto dalla figura dell’“Invisibile”, collocata al di sopra del “Crimine”. Stando alle dichiarazioni del giovane Bonaventura, anche nella sua consorteria vi erano uomini “Invisibili”: i cugini Tonino e Raffaele Vrenna. I due rappresentavano la parte imprenditoriale della famiglia e “sedevano a tavolo con i massoni”. “Tonino Vrenna è fratello di mio padre e quindi mio zio diretto ed è attivo nel settore edile – ha ricordato il collaboratore –. Poi si sono estesi nel settore dei termovalorizzatori e nel mondo del calcio acquisendo la squadra dove pure io avevo un ruolo come quello di occuparmi dei rapporti con la tifoseria del Crotone. Gli Invisibili non sono formalmente affiliati alla ‘ndrangheta come normali ‘ndranghetisti – ha continuato –, ma stanno in una sorta di mondo di mezzo". Per spiegare meglio la natura della figura Bonaventura ha fatto riferimento alla simbologia delle carte napoletane: “Abbiamo denari, spade e mazze, il palo che viene scartato è coppe. Ogni carta ha una simbologia: si parte dal re di denari, di spade e di bastone che hanno una simbologia. Poi si passa ai cavalieri, alle donne, e poi si continua solo con i denari: il 7 di denari ha un significato, il 6 un altro e via discorrendo”. Questo fino ad arrivare all’asso, sempre di denari, che è appunto l’invisibile: “È il tesoro, che dev’essere coperto sempre”. Anche simbolicamente, infatti, viene coperto con l’asso di coppe. Per l'appunto, dunque, una figura protetta a disposizione della ‘Ndrangheta per agire nell’ombra.
Questo ruolo delinea ancora di più come il fenomeno mafioso sia composto non solo dalla mafia, ma anche da componenti esterni al crimine organizzato quali imprenditori, massoni, politici e tanto altro.

San Luca: “Casa madre” della ‘Ndrangheta
Evoluzione del proprio clan, potere, “Crimine”, “invisibili” e tanto altro è emerso dalle dichiarazioni di Luigi Bonaventura. Ma c’è un ulteriore passaggio degno di una giusta analisi. In riferimento all’importanza della dote di “Crimine” all’interno della ‘ndrangheta, Bonaventura ha affermato che la “casa madre” dell’organizzazione criminale calabrese continua ad essere il paese di San Luca. “È stato infatti Antonio Pelle di San Luca, detto Gambazza, a concedere in tempi recenti il Crimine a Cutro al boss Nicolino Grande Aracri, - ha detto - mentre da tempo erano stati aperti i locali di ‘ndrangheta di Cirò e Isola Capo Rizzuto. Nel Vibonese i Vrenna-Bonaventura erano alleati con i Lo Bianco di Vibo e i Mancuso di Limbadi. A Rosarno con i Pesce ed i Bellocco”.

Foto © Bernal Saborio/Flickr

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