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Depositate le motivazioni della sentenza di appello in abbreviato
di AMDuemila
E’ l’immagine di una ‘Ndrangheta imprenditrice e di una borghesia mafiosa capace di diffondersi mutando il proprio Dna quella che viene dipinta dai giudici della terza sezione penale della Corte di Appello di Bologna nelle motivazioni della sentenza di secondo grado al processo in abbreviato “Aemilia”. Nelle 1400 pagine si parla di "holding criminale di rilievo internazionale" che “si muove in modo diverso rispetto alle regole tradizionali, senza necessità di ricorrere, almeno apparentemente, a riti e formule di affiliazione”. Per perseguire i propri scopi “necessita del supporto tecnico e dell’appoggio operativo di commercialisti, fiscalisti, uomini delle forze dell’ordine, giornalisti e rappresentanti della politica locale”. E la Corte non fa fatica ad inquadrare l’esistenza di una “borghesia mafiosa esistente al nord, composta da imprenditori, liberi professionisti e politici, che fa affari con le cosche, ricercandone addirittura il contatto in ragione delle ampie opportunità offerte dall’appoggio dell’organizzazione”. Basta semplicemente pagare per ottenere “la protezione e il vantaggio che la cosca può offrire”.
Diversificata la rete degli affari: “Dal mondo dell’edilizia, ai trasporti, ai rifiuti al movimento terra, dei quali il sodalizio calabro-emiliano assumeva in breve tempo il sostanziale monopolio”. Così, nel corso degli anni, la ‘Ndrangheta “pur manifestando costantemente la propria presenza in Emilia con numerosissimi episodi intimidatori e fatti di sangue, mostrava la propria potenza organizzativa con una peculiare capacità reattiva e sapeva al contempo operare sempre più a 360 gradi, con una sorprendente abilità mimetica per meglio infiltrarsi nel tessuto economico imprenditoriale sano della regione”.
Sono dunque queste le motivazioni che hanno indotto i giudici, lo scorso settembre, a confermare gran parte delle decisioni del gup per 60 imputati che avevano scelto il rito abbreviato. C’erano state importanti condanne fino a 15 anni per molti dei capi, organizzatori e partecipi dell'associazione calabro-emiliana, ed erano stati respinti molti ricorsi delle difese.

Autonomia emiliana
I giudici hanno anche spiegato come in Emilia Romagna il gruppo capeggiato da Nicolino Sarcone, condannato a 15 anni, godesse di una certa autonomia rispetto alle famiglie calabresi. Infatti, pur mantenendo un legame con la “casa madre” calabrese, e in particolare con il boss Nicolino Grande Aracri, aveva “piena autonomia decisionale sugli affari da concludere”. Il capomafia veniva sempre informato degli affari ma, spiegano i giudici, non era da lui “che dipendeva l’ideazione o la decisione di quali imprese assoggettare in Emilia né di quali occasioni economiche sfruttare o creare”.

Il ruolo di Pagliani
Tra le posizioni modificate rispetto al primo grado c’è quella dell’ex consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia, Giuseppe Pagliani, prima assolto e poi condannato a quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E rispetto alla sua posizione i giudici scrivono che Pagliani fece un patto con gli ‘ndranghetisti, e fu "un tassello essenziale per l'esecuzione del programma criminale del sodalizio operante in Emilia cui forniva effettivamente e concretamente una cooperazione ben precisa, efficace e consapevole".
Secondo la Corte la condotta del politico, va valutata nel contesto del 2012, quando il prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro aveva colpito con una serie di misure interdittive le imprese cutresi, e da parte del gruppo c'era sempre più insofferenza ed era partita una sorta di controffensiva. Secondo i giudici le azioni del consigliere
furono "concretamente idonee e deliberatamente orientate a fornire supporto, visibilità e cassa di risonanza al progetto di attacco alle istituzioni e agli organi di informazione ideato dal gruppo criminoso per insinuarsi con maggior potenza, visibilità e parvenza di legittimazione anche politica all'interno del tessuto sociale della regione".

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