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I capomafia Graviano e Filippone mandanti degli agguati ai Carabinieri in Calabria

Per gli attentati ai carabinieri in Calabria, tra il ‘93 e il ‘94, c’è stata una partecipazione della ‘Ndrangheta alla strategia delle stragi al pari di Cosa nostra. Un omicidio e due tentate uccisioni per i quali oggi l’operazione “‘Ndrangheta stragista” ha svelato i nomi dei due mandanti, destinatari di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Si tratta del capomandamento di Brancaccio (Palermo) Giuseppe Graviano, attualmente al 41 bis e fedelissimo di Totò Riina, e Rocco Santo Filippone, legato alla potente cosca calabrese dei Piromalli di Gioia Tauro. Quest’ultimo, oggi 77enne, era a capo del mandamento tirrenico della 'Ndrangheta all'epoca degli attentati ai carabinieri: la Dda di Reggio Calabria ha contestato al capomafia anche il reato di associazione mafiosa in quanto è considerato, oggi come allora, elemento di vertice della cosca Filippone.
La strategia di attacco contro i carabinieri ha inizio il 18 gennaio 1994, quando morirono gli appuntati Antonino FavaVincenzo Garofalo. Nel secondo attentato, il 1° febbraio ’94, furono feriti l'appuntato Bartolomeo Musicò ed il brigadiere Salvatore Serra, mentre il 1° dicembre dello stesso anno rimasero miracolosamente illesi il carabiniere Vincenzo Pasqua e l'appuntato Silvio Ricciardo. Attentati che, secondo gli inquirenti reggini, non vanno letti ciascuno in maniera singola ed isolata, ma inseriti in un contesto di più ampio respiro e di carattere nazionale nell'ambito di un progetto criminale, la cui ideazione e realizzazione è maturata non all'interno delle cosche di 'Ndrangheta, ma attraverso la sinergia, la collaborazione e l'intesa di organizzazioni criminali, che avevano come obiettivo l'attuazione di un piano di destabilizzazione del Paese anche con modalità terroristiche.
Oltre alle due ordinanze di custodia cautelare in carcere, sono state eseguite numerose perquisizioni in diverse regioni d'Italia: Calabria, Sicilia, Campania, Val d’Aosta. Tra i luoghi perquisiti anche la casa di Bruno Contrada, ex numero due del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Le operazioni, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria (il procuratore Federico Cafiero de Raho, il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, il sostituto Francesco Curcio) sono scattate per opera della squadra mobile di Reggio Calabria, dal Servizio centrale antiterrorismo e dal Servizio centrale operativo della Polizia di Stato e partecipano anche i Carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria.
Grazie a nuovi elementi collegati fra loro, le ricostruzioni degli inquirenti riconducono il ruolo della ‘Ndrangheta, al pari di Cosa nostra, come parte attiva nella strategia di attacco frontale contro lo Stato, portata avanti con le stragi “in continente” nel ‘93 a Firenze, Roma e Milano. Protagonista di quella stagione, secondo quanto emerso dalle indagini, non fu, infatti, solo la mafia siciliana, che ad ogni modo svolse un ruolo operativo fondamentale, secondo quanto già acclarato dalle sentenze definitive. Il ruolo della ‘Ndrangheta sarebbe stato tutt’altro che marginale, e ha portato gli investigatori a dimostrare il coinvolgimento dei boss reggini nell’escalation stragista, fino al fallito attentato Olimpico a Roma del 23 gennaio ‘94. Una strategia unica stabilita da una commissione ristretta che ha visto, con una posizione più marginale, anche la potente cosca De Stefano.
Secondo gli inquirenti, sullo sfondo della strategia stragista si staglia la presenza di soggetti occulti, provenienti dalle istituzioni deviate e collegati a settori del piduismo. Le stragi mafiose sarebbero quindi da ricondurre a suggeritori dei servizi di informazione dell’epoca. Sul punto, le indagini proseguiranno.

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L'eccidio degli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo


Rientrati nel fascicolo dell’inchiesta anche i verbali di diversi collaboratori di giustizia: tra questi anche Nino Fiume, che parlando di favori della Calabria alla Sicilia, aveva dichiarato: “È stata una cortesia chiesta. Cosa nostra cercava alleati in Calabria per coinvolgere la ‘Ndrangheta in quella che sarà definita la stagione stragista. A detta di Giuseppe De Stefano a sparare sono stati due calabresi”. In un memoriale, Fiume ha anche raccontato delle dinamiche interne alla famiglia di Archi, boss “dalle scarpe lucide” che trattavano da pari a pari con Riina. Nei summit di cui è stato testimone oculare, Fiume ha raccontato che inizialmente le cosche avevano rifiutato di partecipare alle stragi insieme a Cosa nostra, ma in realtà erano favorevoli.
Secondo l’accusa, a Filippone sono stati affidati compiti di particolare rilievo, come quello di curare le relazioni e di incontrare i capi delle altre famiglie di 'Ndrangheta, così da portare all’esecuzione le decisioni criminali di maggior rilevanza, deliberate dalla componente riservata dell'organizzazione mafiosa calabrese. Tra queste anche quelle di aderire alla strategia stragista di attacco alle istituzioni dello Stato, in sinergia con Cosa Nostra. Per gli omicidi dei Carabinieri erano stati arrestati, in qualità di esecutori, Giuseppe Calabrò e Consolato Villani, quest’ultimo minorenne all’epoca dei fatti ed oggi entrambi collaboratori di giustizia. I due avevano confessato di essere gli autori materiali, senza però indicare quello che, secondo gli inquirenti, è il vero movente. Calabrò, infatti, aveva sostenuto che l'agguato sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria del 18 gennaio 1994, dove furono uccisi Fava e Garofalo, fu fatto per timore di un controllo mentre, a bordo di un'auto, trasportavano armi. Il 27 maggio 2016 Villani, deponendo al processo sulla trattativa Stato-mafia a Palermo, aveva ribadito più volte che “la direttiva era uccidere i Carabinieri e colpire lo Stato”, dichiarando di aver chiesto proprio a Calabrò il motivo degli agguati ai carabinieri, e che questo gli aveva riposto che "stavamo facendo come la banda della Uno bianca: attaccavamo lo Stato". Villani aveva anche riferito di essere stato lui, su disposizione di Calabrò, a fare una telefonata in cui si rivendicava l'attentato costato la vita a Fava e Garofalo in cui disse "questo è solo l'inizio". Secondo le indagini, Calabrò e Villani sarebbero stati aizzati da Demetrio Lo Giudice (deceduto) emissario della cosca Libri che, in compartecipazione con i Piromalli, e quindi con Filippone, erano le famiglie maggiormente disponibili ad appoggiare Cosa nostra nelle stragi.
A proposito di legami tra Reggio Calabria e Palermo, è il collaboratore Antonino Cuzzola a raccontare ai pm come il boss Domenico Pagliaviniti, di ritorno da Archi nel 1990 “mi disse che era andato a Reggio Calabria a salutare i Tegano. Disse che rivelò, nella casa in questione, che c’erano tre dei Santapaola di Catania, tre di Cosa nostra di Palermo, gente di Riina e tutti i Tegano a discutere”. Rapporti più che stretti, anche tra la cosca di Archi e Stano Bontade, riferiti dal pentito Giovanni Brusca: “I De Stefano erano legati a Cosa nostra. Ricordo anche che Riina si interessò in Calabria presso i suoi amici per far cessare gli attacchi sui cantieri della Lodigiani”.
Ma a parlare dei contatti tra mafia calabrese e siciliana è stato anche Gaspare Spatuzza, pentito dalla credibilità ormai acclarata da più di una procura. Così come del colloquio con Giuseppe Graviano quando, al bar Doney a Roma, disse che, grazie a Berlusconi e Dell’Utri “c’eravamo messi il paese nelle mani” e che, in riferimento all’obiettivo dello Stadio Olimpico dove fare l’attentato, poi fallito, Graviano disse: “Gli dobbiamo dare il colpo di grazia”. È ancora Spatuzza, al processo Gotha, che rivela comeGiuseppe Graviano mi spiegò che gli amici calabresi, in particolare il riferimento era alla cosca Molè-Piromalli, si sarebbero mossi su richiesta di Mariano Agate", boss di Mazara del Vallo deceduto che “è certamente da considerarsi, così come mi spiegarono i fratelli Graviano, l’anello di congiunzione tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta”.
Secondo Spatuzza, ancora, c’erano anche i calabresi a spingere per una trattativa tra Stato e mafia. E in seguito, nel primo periodo della sua detenzione, il pentito riportò a Giuseppe Graviano (ugualmente detenuto) di alcune “lamentele che giravano in carcere” per opera “soprattutto di napoletani e di qualche calabrese” che “attribuivano a noi siciliani la responsabilità del 41bis… all’ala stragista”. Graviano, dal canto suo, replicò che “E’ bene che parlassero con i loro padri che gli sanno dare tutte le indicazioni dovute”. Parlando di “padri”, il boss si riferiva ai “responsabili, i capifamiglia” che sia in Calabria che in Campania sarebbero stati parte attiva, “tutti partecipi a questo colpo di Stato”. Altrimenti, aggiunge Spatuzza, “non avrebbe senso per Giuseppe dirmi che ‘i calabresi si sono mossi’…”. Ora è stato proprio Graviano ad essere destinatario di un’ordinanza in qualità di mandante degli attentati ai Carabinieri, ricondotti dalle indagini ad un progetto ben più ampio rispetto alla singola organizzazione criminale. Proprio il boss di Brancaccio, recentemente intercettato, aveva detto al suo compagno di ora d’aria che “nel '93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia”, facendo intendere la presenza di altre componenti nel progetto stragista. E solo lo scorso gennaio il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, aveva annunciato delle possibili svolte nelle indagini per gli episodi omicidiari contro i carabinieri, riconducendoli a “un piano di adesione a quello stragista su cui, come Procura di Reggio, abbiamo lavorato”. Sette mesi dopo, il blitz che rivela i nomi dei mandanti e i legami a doppio filo tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta.

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