di Miriam Cuccu
''Cormònslibri'', il pm reggino agli studenti: ''Siate consapevoli. La strada della mafia è senza ritorno''
Consapevolezza e discernimento per contrastare la criminalità organizzata, da Nord a Sud. Di questo si parla con Giuseppe Lombardo (in foto), procuratore aggiunto di Reggio Calabria, davanti agli studenti delle scuole superiori che a Cormòns (Gorizia) si sono interrogati su mafia e legalità in occasione di "Cormònslibri 2016", il festival del libro e dell'informazione.
"Quando partecipo ad incontri nelle scuole calabresi mi porto sempre dietro sensazioni straordinariamente positive" racconta Lombardo, presentato dal direttore di Antimafia Duemila Giorgio Bongiovanni. "E sono le stesse che ricavo in occasioni come quella di oggi. A loro e a voi dico: utilizzate le vostre capacità e la sensibilità per comprendere immediatamente quando qualcosa non funziona o non vi convince, perchè non risponde a quella logica innata che ognuno ha in sé".
Per spiegare agli studenti il fenomeno mafioso il pm parte dal principio: "Cos'è la 'Ndrangheta? Se me lo chiedeste tra sei mesi vi darei una risposta ancora diversa" assicura, alludendo alla capacità insita nelle cosche calabresi di cambiare forma in base al contesto, seppur lasciando intatte tradizioni e strategie. "Reggio Calabria, intesa come provincia, è il cuore pulsante della 'Ndrangheta nel mondo, la capitale storica, anche se trattandosi di una multinazionale ha più capitali. Le indagini concluse nel 2010 - spiega ancora Lombardo - hanno attualizzato la struttura internazionale della criminalità organizzata calabrese consegnandoci un quadro drammatico perché, pur mantenendo saldissime le sue origini in Calabria, nel mondo questo modello è considerato vincente in quanto efficiente, ricco, affidabile, con interlocutori chiari".
Ma gli ambienti mafiosi, evidenzia Lombardo, non sono a compartimenti stagno: "Le grandi mafie sono parte integrante di un sistema unico, hanno sempre cercato il dialogo attraverso soggetti di vertice. Hanno sempre mirato all'obiettivo di rendersi irriconoscibili agli occhi di chi investigava il fenomeno" e così "hanno creato un livello superiore che abbiamo ricostruito a fatica e con ritardo: la cosiddetta componente riservata" di cui fanno parte "operatori politici ed istituzionali". "C'è il rischio - aggiunge Bongiovanni - che personaggi di potere possano conquistare definitivamente il nostro Paese. Come evitarlo? Nelle elezioni future chiediamo ai partiti a che punto è, nella loro agenda politica, la lotta alla mafia, e già da questo potremo capire da che parte stanno".
"Quello che è avvenuto in Sicilia" prosegue Lombardo, parlando della trattativa Stato-mafia, "accadde molti anni dopo rispetto a un laboratorio criminale calabrese che aveva aperto la strada a questo dialogo. Ci sono tracce di un contrasto alle mafie molto blando, direi dialogante, ma di che dialogo parliamo? Se io sono Stato e tu antistato, io non parlo ma ti faccio la guerra". E per guerra si intende un serio contrasto giudiziario: "Se il sistema mafioso è unico - riflette il pm - quello giudiziario se vuole avere speranza nei tempi non deve partire ogni volta da zero, ma dai risultati delle precedenti investigazioni. Questo però non sempre accade" perché "servono risorse importanti, che spesso non ci sono".
"Ci sono state volte - ammette quindi Lombardo - in cui ho provato un profondo senso di smarrimento nel vedere materializzato sotto i miei occhi ciò che avevo sempre immaginato, e sono arrivato alla conclusione che bisogna ripensare questo sistema di contrasto alle mafie, che ha bisogno di costanza. E' qualcosa di quotidiano che non può essere legato solo a legislazioni eccezionali del dopo stragi" o a interventi "di natura emozionale".
Contrastare, però, vuol dire anche sradicare la cultura mafiosa, nella quale sempre più spesso sono le donne a perpetrare le tradizioni delle famiglie criminali: "In assenza dei grandi capimafia latitanti - afferma il pm reggino - la donna assumeva un ruolo di supplenza con una determinazione ancora maggiore. Le donne sono diventate ancora di più il pilastro, e questo impediva all'azione giudiziaria di ottenere risultati soprattutto con i minori. Ci rivolgemmo al tribunale dei minorenni per intervenire a favore dei ragazzi che venivano cresciuti per diventare mafiosi. Ci dissero i nostri colleghi 'se tocchiamo i loro figli ci ammazzano davvero'. Oggi però la nostra iniziativa è diventata un modello di riferimento in tutta Italia: lo Stato affida alla scuola e ancor prima alla famiglia il ruolo di veicolo educativo, ma bisogna educare al bene, al giusto, non alla cultura mafiosa. Per questo, ad esempio, il tribunale tolse la potestà genitoriale a una madre, in quanto veicolo deviato e distorto nell'educazione dei figli".
Di fronte a questo scenario, ha detto ancora il magistrato, "possiamo coltivare la consapevolezza ed essere in grado di dire 'no'. Le persone perbene ci sono, purtroppo accanto anche a situazioni che vanno ben oltre la corruzione e la contiguità. Non siamo in uno Stato mafioso, ma in un Paese in cui ci sono purtroppo persone che non compiono il loro dovere. Molte altre, però, fanno il loro lavoro al prezzo di alti sacrifici. C'è una parte sana e ognuno di voi deve essere in grado di riconoscerla e di diventarne interlocutori. Rivolgersi alla parte malata vuol dire imboccare una strada senza ritorno. La mafia inceppa i meccanismi ordinari e così ha modo di intervenire per risolvere il problema. Nel momento in cui qualcuno si rivolge a lei ha già vinto".
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Foto © Paolo Bassani