L'analisi della Dna sulla mafia calabrese
di Stefano Perri - 25 febbraio 2015
La ‘ndrangheta si è globalizzata, è andata oltre ogni confine geografico. E’ divenuta un fenomeno mondiale con le radici ben salde in Calabria. E non solo. E’ riuscita ad abbattere anche i suoi confini culturali, sdoganando la sua capacità di infiltrarsi nel tessuto politico, sociale ed economico ed estendendo il suo potenziale intimidatorio. E’ questa una delle prime conclusioni alle quali sono arrivati i magistrati della Direzione Nazionale Antimafia, scritta nero su bianco sull’annuale relazione presentata ieri a Roma. La sua fama criminale la precede. A differenza di quanto avveniva in passato, oggi non c’è bisogno di essere nati a Platì per sapere quanto possa essere feroce il potere di una ‘ndrina. E così le risultanze processuali dimostrano che la capacità intimidatoria si è spinta anche oltre i confini nazionali. In alcuni casi documentati dalla Dna, ai membri dei clan è stato sufficiente la semplice qualifica di appartenenti alla ‘ndrangheta per portare a termine i loro progetti criminali. Un corpo unico E’ la nuova dimensione globale della ‘ndrangheta. Una dimensione che, però, affonda le sue radici in una tradizione fatta di regole e codici precisi che assicurano all’organizzazione un carattere unitario. La legittimazione ‘ndranghetista non ha affatto modificato le sue origini: un gruppo criminale è riconosciuto come ”locale” solo ed esclusivamente con il placet della cosiddetta ”Mamma di Polsi”, dunque del Crimine reggino. La testa è giù, in fondo allo Stivale, in mezzo a quei boschi impenetrabili che cinturano le pendici dell’Aspromonte. Le doti di ‘ndrangheta possono essere conferite solo da chi è legittimato dalla ”Mamma”, o da chi lo è stato in precedenza. ”Tutti gli ‘ndranghetisti – scrive la Dna – anche quelli che per motivi tattici, temporaneamente, si sono posizionati ad una certa distanza dal Crimine, per legittimarsi sul territorio e per legittimarsi rispetto alle altre cosche, fanno sempre riferimento a quell’albero comune, quello della ‘ndrangheta, delle cui tradizioni si dicono sempre interpreti e rispetto al quale si ritengono o mostrano di ritenersi un ramo”.
Le risultanze processuali hanno dimostrato l’abitudine fondata dei capi clan locali di tutta Italia, ma anche dei locali di Svizzera e Germania, a recarsi periodicamente in Calabria per conferire con i boss del Crimine reggino. Esattamente come le foglie di un albero che traggono la loro linfa vitale dalle radici affondate nel terreno. Il vertice invisibile Tuttavia nella struttura unitaria e piramidale del ‘ndrangheta qualcosa è cambiato negli ultimi anni. Lo registrano i magistrati della Dna. Una sorta di reazione difensiva. Una sommersione delle manifestazioni esteriori, dei rituali, dei simboli che hanno dato in passato visibilità alle strutture di vertice della ‘ndrangheta. E così se le articolazioni locali dell’organizzazione non rinunciano ai rituali di affiliazione (il classico santino bruciato), a livello centrale le investiture sono divenute molto meno evidenti, meno esteriori. ”Negli ultimi anni – scrive la Dda – non sono state più registrate riunioni plenarie dei capi, o di una parte di essi, della ‘ndrangheta del momento, non solo a Polsi, ma anche in altri luoghi né, invero, almeno allo stato, si ha prova di investiture dei gradi apicali del Crimine”. La testa del mostro sembra essere sparita. Non vi è notizia di nuove investiture dei successori degli ormai detenuti Oppedisano, il capo crimine, e Commisso, il mastro di giornata. Nonostante le indagini serrate non sono stati individuati nuovi capi della ”provincia”, né gli eventuali reggenti. La ‘ndrangheta ha cambiato pelle, ha cambiato struttura? O invece, come pensano gli inquirenti, le comunicazioni tra i capi avvengono in modo molto più riservato e, soprattutto, frammentato. Alle riunioni plenarie si preferisce il passaparola, spesso cifrato e telematico. Molto meno evidente, molto meno rischioso. ‘Ndrangheta Spa Eppure il carattere unitario della ‘ndrangheta non è messo in discussione. Per la Dna l’esistenza di un livello sovraordinato che la coordina si evince quando ”si abbandona il terreno formale della operatività della Provincia e dei Mandamenti e ci si inoltra, invece, su quello della gestione dei grandi affari e dei rapporti con la politica”. E’ il ”core business” della ‘ndrangheta ad essere unitario: affari, sia illeciti che leciti, politica e istituzioni. In questo esistono ”norme comportamentali comuni e condivise”, un sistema. E l’unitarietà della ‘ndrangheta va in una direzione ben precisa: l’accumulo di capitali acquisiti in maniera illecita ed il reimpiego in settori economici apparentemente sani. Meccanismo che consente di controllare imprese ed aziende, anche di grandi dimensioni, ed attraverso queste allargare la propria influenza fino ad arrivare al cuore dell’economia legale. Un processo che permette alla ‘ndrangheta di detenere un immenso potere economico e quindi di interloquire, da egemone, con tutte le altre organizzazioni criminali mondiali. E non solo. La capacità di fare business nell’economia legale consente alla ‘ndrangheta di relazionarsi alla politica e alle istituzioni. ”La politica – scrivono i magistrati della Dna – riceve servizi e vantaggi dalla ‘ndrangheta, e restituisce il favore consentendo alle imprese dell’organizzazione di fare sempre nuovi affari, che generano nuove ed ulteriori ricchezze che consolidano, così, la posizione economica, rafforzandone, anche e di conseguenza, la capacità di giocare un ruolo sempre più importante pure nel mercato. E così via, in una crescita economica e criminale: si tratta di un circolo vizioso che sembra non avere fine”.
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