Si avvia verso la conclusione la requisitoria della Procura generale di Palermo per l’agguato mafioso del 5 agosto ‘89
“Il duplice omicidio Agostino-Castelluccio ha costituito per più di 30 anni un caso giudiziario di peculiare complessità. Lo si evince anche dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Persone che hanno un passato sicuramente non specchiato, ma che riferiscono circostanze segrete di un’associazione altrettanto segreta. In questo caso, fatti segretissimi sui rapporti tra Cosa nostra e le istituzioni”.
È iniziata così la quarta giornata della requisitoria del Processo Agostino, tenutasi ieri davanti alla Corte d’Assise di Palermo presieduta da Sergio Gulotta (giudice a latere Monica Sammartino). Una premessa chiara, quella del sostituto procuratore nazionale antimafia Domenico Gozzo, il quale ha dedicato l’intera udienza alla ricostruzione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia acquisite durante il dibattimento e ai relativi riscontri. Il tutto per completare la ricostruzione finora svolta, anche grazie al sostituto procuratore Umberto De Giglio e alla Procuratrice generale Lia Sava, “di tutti gli elementi in cui si parla specificamente dell’imputato”.
Il procedimento che indaga sulla morte del poliziotto Nino Agostino, appunto, e della moglie Ida Castelluccio, uccisi entrambi in un agguato mafioso il 5 agosto del 1989 a Villagrazia di Carini. Sul banco degli imputati siedono Francesco Paolo Rizzuto, sedicente amico d’infanzia dell’agente, accusato di favoreggiamento, e il boss dell'Acquasanta Gaetano Scotto, accusato di duplice omicidio aggravato in concorso.
Da Vito Galatolo a Oreste Pagano, da Vito Lo Forte a Giovanni Brusca, per passare poi a Giovanna Galatolo, Francesco Di Carlo, Francesco Onorato ed altri. Tutti collaboratori di giustizia che, incalzati dalle domande di varie Procure, con le loro dichiarazioni hanno aperto uno squarcio all’interno del mondo di mezzo della mafia, fatto di ibridi connubi e cointeressenze fra criminalità organizzata e alte cariche istituzionali. Un crinale oscuro sul quale si muoveva l’agente Nino Agostino. Ed è per questo motivo che sia la mafia sia i servizi segreti lo volevano morto.
La discussione di Domenico Gozzo con accanto la pg Lia Sava e Umberto De Giglio
Vito Galatolo, soggetto di credibilità indiscussa
Il collaboratore di giustizia Vito Galatolo, figlio di Vincenzo, capo della famiglia dell’Acquasanta e braccio armato dei Madonia, è stato il primo dei collaboratori di giustizia esaminati in udienza. “Un soggetto di credibilità indiscussa” ha detto il procuratore Domenico Gozzo, che "per la sua vita personale, e per i rapporti criminali che ne sono derivati, è a conoscenza di notizie di rilevante gravità e delicatezza, quali quelle riferite nel presente procedimento”.
“Galatolo - ha aggiunto - ha riferito di avere appreso dal cugino Stefano Fontana (uomo d’onore di prestigio della sua stessa famiglia, ndr), mentre erano detenuti nel 2003 al carcere di Pagliarelli (Palermo, ndr), che gli autori dell’omicidio Agostino-Castelluccio erano stati Antonino Madonia e Gaetano Scotto”. Quest’ultimo, in particolare, “aveva ucciso anche la donna, perché a conoscenza dei segreti del marito”. Non solo. Nel corso di questo procedimento Vito Galatolo ha anche parlato dei rapporti che Scotto aveva con i servizi segreti; che nel periodo circostante l’omicidio di Nino Agostino (1988-1990) gli era capitato di vedere più volte una persona con il volto sfigurato a Vicolo Pipitone: il centro nevralgico della holding del mandamento mafioso dei Galatolo e dei Madonia. Questo soggetto è stato poi identificato nella figura di Giovanni Aiello, già appartenente alla Polizia di Stato operante a Palermo e congedatosi nel ’77 e transitato nei servizi segreti. Un uomo di fiducia di Bruno Contrada, ex capo della Squadra Mobile di Palermo ed ex numero tre del Sisde (anche lui più volte presente a Vicolo Pipitone) e in rapporti di frequentazione con Guido Paolilli, altro uomo di fiducia di Contrada, la cui figura è implicata nel depistaggio nelle indagini sul duplice omicidio in questione.
Le molteplici risultanze probatorie, inoltre, tra le altre cose hanno consentito di riscontrare le dichiarazioni di Vito Galatolo sui rapporti che i Madonia, e in particolare Salvatore, intrattenevano con i servizi segreti e alcuni esponenti delle Forze di Polizia; sui rapporti dello stesso Salvatore Madonia, detto “Salvino”, con Contrada e Aiello, alias “faccia da mostro”; oltre ai rapporti che l’imputato Gaetano Scotto aveva con i servizi segreti e l’Alto Commissariato.
Vincenzo Agostino insieme alla figlia Nunzia
Oreste Pagano e le indicazioni su Gaetano Scotto
A seguire è stata la volta di Oreste Pagano, il secondo collaboratore di giustizia, in ordine di tempo, a riferire dell’omicidio Agostino-Castelluccio. Narcotrafficante italo-canadese in affari con i noti trafficanti internazionali di stupefacenti Cuntrera e con i loro “alleati” canadesi Rizzuto, nonché con Gaetano Fidanzati. Quest’ultimo punto di riferimento per il narcotraffico di Gaetano Scotto, oltre ad essere “strumento” degli interessi dei Madonia nel settore.
Il collaboratore di giustizia rientra in questo processo perché il 5 gennaio 2000 ha riferito alla Procura di Torino di avere saputo di un duplice omicidio avvenuto a Palermo di un poliziotto e della moglie in gravidanza. Il poliziotto, ha ricordato Gozzo, era stato ucciso perché voleva “rivelare legami della mafia con alcuni componenti della Questura di Palermo”. Oreste Pagano era venuto a conoscenza della circostanza ad un matrimonio tenutosi a Montreal nel 1995. A sposarsi era uno dei “rampolli” della famiglia mafiosa italo-canadese dei Rizzuto, imparentati con i Cuntrera. Anche Pagano ha confermato di sapere che Ida Castelluccio era stata uccisa perché a conoscenza delle rivelazioni che il marito avrebbe potuto fare. E che l’omicidio era stato commesso da un Madonia e da un certo “Scuotto”, ovvero Gaetano Scotto, che era al matrimonio invitato da Gaetano Fidanzati.
Durante la sua deposizione alla Procura di Torino ha consegnato anche alcuni appunti vergati a mano dallo stesso Pagano. Quegli appunti evidenziano la spontaneità e la precisione, oltre che la completezza, della trattazione dei fatti ricostruiti dal collaboratore. Negli appunti Pagano ha riferito fatti a sua conoscenza, tra cui la responsabilità di Scotto, appunto, insieme a un Madonia; l’origine dell’omicidio Agostino-Castelluccio legata al fatto che l’agente Agostino voleva rivelare i rapporti di alcuni appartenenti alle “alte sfere” delle forze di polizia con Cosa nostra; e che l’origine delle sue conoscenze derivavano dai rapporti che aveva con Alfonso Caruana.
Come ha sottolineato Domenico Gozzo in aula, “la sua coerenza e la sua costanza hanno reso Oreste Pagano reputato altamente attendibile da tutte le sentenze che lo riguardano”.
La Procura generale assieme agli avvocati di parte civile e le difese
Vito Lo Forte: una collaborazione condizionata dal timore di morire
Gozzo ha proseguito con l’esame delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vito Lo Forte. “Indubbiamente un soggetto che si intreccia specificamente con i fatti oggetto di questo procedimento”, ha detto alla Corte. Mafioso di vecchia data, la sua carriera criminale inizia negli anni ’70 nel piemontese fino a diventare uomo organico della famiglia mafiosa dell’Arenella di Palermo. Prima della sua collaborazione con la giustizia era uomo di fiducia di Gaetano Scotto. Particolare rilevanza assumono in questo procedimento le sue dichiarazioni in merito alle fonti da cui apprese del duplice omicidio Agostino-Castelluccio. Tra queste certamente Vito Galatolo e Gaetano Vegna, reggente della famiglia dell’Arenella, di cui Scotto era sottocapo e che faceva parte, unitamente alla famiglia dell’Acquasanta, del mandamento di Resuttana, il cui reggente era il boss Antonino Madonia. Lo Forte, inoltre, ha riferito che sia l’agente Agostino sia Emanuele Piazza, (collaboratore esterno del Sisde assassinato il 16 marzo 1990) erano stati uccisi perché cercavano latitanti e per fare un favore ad alcuni funzionari di polizia importanti. Grazie a Vito Lo Forte si è arrivati alla condanna definitiva di numerosi esponenti di Cosa nostra e si sono aperti importanti filoni investigativi che riguardavano i rapporti peculiari di alcune famiglie mafiose con esponenti degli apparati di polizia e di sicurezza.
Domenico Gozzo ha voluto esaminare nel dettaglio le sue dichiarazioni per eliminare i dubbi sulla sua attendibilità sorti in seguito alla storia processuale dell’omicidio di Matteo Corona, avvenuto pochi mesi prima dell’omicidio Agostino. Una vicenda “piuttosto accidentata”, come l’ha definita Gozzo, in ordine alla quale, sulla base di dichiarazioni di Lo Forte, era imputato proprio Gaetano Scotto.
In primo grado il processo era stato diviso in due tronconi. Una prima Corte aveva ritenuto le dichiarazioni di Vito Lo Forte come inattendibili sulla figura di Scotto. Una seconda Corte d’Assise di primo grado, invece, aveva concluso l’esatto opposto, ritenendo il collaboratore di giustizia attendibile sugli stessi fatti. Dopo un nuovo giudizio d’appello, Scotto venne assolto, sulla base di una serie di considerazioni sulla inattendibilità di Vito Lo Forte, considerato un soggetto “disturbato”. Ma non era così.
Il Presidente della Corte Sergio Gulotta assieme alla giudice a latere Monica Sammartino
Il collaboratore Francesco Onorato, infatti, il 28 gennaio 2014 ha dichiarato che dopo che Vito Lo Forte aveva iniziato a collaborare con la giustizia, i Galatolo e lo stesso Scotto avevano manifestato forti preoccupazioni perché l’ex sodale dell’Arenella era a conoscenza di fatti molto delicati.
Addirittura, il boss Pino Galatolo gli aveva detto che Vito Lo Forte doveva essere ucciso ed era stato diramato l’ordine di individuare la località segreta dove risiedeva grazie al programma di protezione. Cosa nostra era riuscita ad individuare la località grazie ai loro referenti interni alle istituzioni. Scoprirono dunque che Vito Lo Forte dimorava segretamente a Viterbo. Una vicenda confermata anche dal Servizio Centrale di Protezione il quale ha sottolineato come Lo Forte, percepito il pericolo, aveva manifestato il timore di essere ucciso.
Dunque, “non di eretismo si trattava, cioè di una ‘sindrome di aumentata eccitabilità, generalizzata e circoscritta' - ha detto Gozzo alla Corte -, ma di vera e propria paura”. Una situazione di estremo pericolo al punto tale che il collaboratore di giustizia “aveva chiesto di rientrare in carcere, pur di sentirsi più sicuro”.
Ecco, dunque, il motivo per cui ieri è stata approfondita la vicenda. Per dimostrare come le risultanze processuali acquisite nel processo Agostino hanno comprovato che “i timori del Lo Forte erano pienamente giustificati”, ha concluso Gozzo prima di spegnere per l’ultima volta il microfono della sua postazione. Per il sostituto procuratore nazionale antimafia, infatti, quella di ieri è stata la sua ultima udienza del processo. “Termina qui la mia applicazione in questo procedimento”, ha detto ringraziando la Corte, i colleghi e le parti per il lavoro svolto. Sottolineando ancora una volta che “la responsabilità dell’imputato (Gaetano Scotto, ndr) si evince ‘anche’ dalle dichiarazioni dei collaboratori”, ma non solo.
Foto © Paolo Bassani
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