A 38 anni dalla tragedia della “strage della grande emergenza” il convegno sullo stato dell’antimafia
“C’è il rischio che qualcuno dica che la mafia, a distanza di 38 anni, non esiste più e sarebbe un enorme errore perché Cosa nostra è forte. Si è fatta silente, utilizza il dark web, commercia in cripto valute, utilizza il sommerso perché il sommerso è facile e perché paga. Guarda al traffico di stupefacenti con cartelli di tutto l’orbe terraqueo che dal macro economico al micro economico tanta morte porta nelle strade della nostra città. Usa compiacenze all’interno della PA per accaparrarsi illecitamente fondi pubblici e il PNRR diventa stimolo per sordidissimi affari”. A dirlo è Lia Sava, procuratore generale di Palermo durante un convegno-dibattito per discutere sullo stato di salute dell’antimafia tenutosi presso l’Aula “Luca Crescente” della Procura della Repubblica di Palermo, organizzato insieme al Centro Studi Paolo e Rita Borsellino e all’AGIUS in ricordo dei due giovani Biagio Siciliano e Maria Giuditta Milella, morti in un incidente tra auto di scorta il 25 novembre di 38 anni fa.
“C’è una mafia liquida che è in grado di assumere diversi stati della fisica, si insinua in ogni spazio lasciato libero dall’etica e dal controllo statale”, ha aggiunto Lia Sava. “Però oltre ad essere liquida a volte è solida, capace di uccidere e ha bisogno dove occorre, come in certe zone dell’agrigentino dove la Dda di Palermo ha individuato armi e munizioni molto pericolose e anche nel territorio di Palermo. Ma a volte la mafia è allo stato aereo, si respira in contesti ambigui dove è difficile vedere cosa si respira ma si respira ancora il puzzo della compiacenza ammiccante fra borghesia paramafiosa ed organizzazioni criminali di ogni tipo. Non solo Cosa nostra ma anche ‘Ndrangheta e cartelli internazionali. A volte basta uno sguardo, un ammiccamento all’interno di determinati contesti per realizzare quella che è la compiacenza sordida, una mafia che si respira e che si realizza non solo di una borghesia chiaramente mafiosa ma anche di una borghesia paramafiosa, che è ugualmente pericolosa”.
Quali sono le ricette? Si è chiesta dunque il magistrato. “Prima fra tutte La Sapienza investigativa della Dda di Palermo e delle forze dell’ordine, abbiamo le migliori forze, lo scrupolo e l’attenzione della magistratura giudicante. Ma non basta, occorre l’attenzione forte di tutte le altre istituzioni: la politica, che deve fare la sua parte perché non si può lasciare il cerino sempre e solo in mano alla magistratura e alle forze dell’ordine. Occorre altro, occorrono scelte consapevoli, cioè leggi che non devono solo inasprire le pene ma devono avere la forza di creare occupazione, perché l’occupazione sottrae braccia al crimine organizzato. Solo un programma serio di occupazione consente al ragazzo di vent’anni del quartiere degradato di Palermo che non trova lavoro di dire no all’offerta deviante al crimine organizzato. Occorre lavoro”. Altra ricetta è oliare l’Agenzia dei beni confiscati. “Occorrono scelte di carattere macro economico sapienti, per esempio potenziare l’agenzia dei beni confiscati alle mafie che ora non funziona benissimo. Il potenziamento sarebbe utilissimo perché consentirebbe il riutilizzo efficace dei beni e creerebbe consenso, oltre che posti di lavoro. Occorre creare condizioni tali per cui si comprenda che i costi dell’illegalità incidono in prospettiva davvero drammatica sullo sviluppo dell’economia sana che è la sola, vera speranza per i giovani del nostro Paese. L’antimafia, quella vera, è questo che deve fare”.
Da sinistra: Lia Sava, Giacomo Montalbano, Maurizio de Lucia, Mari Albanese e Vittorio Teresi
De Lucia: “I ragionamenti dei boss sono gli stessi degli anni ’90”
Sempre sul tema del convegno “La mafia e l’antimafia hanno cambiato il proprio volto. Oggi a che punto siamo?”, secondo il procuratore della Repubblica di Palermo Maurizio de Lucia - uno dei relatori insieme al presidente della Commissione Regionale Antimafia, Antonello Cracolici; il direttore della rivista Segno, Nino Fasullo; il presidente dell’Associazione dei Giuristi Siciliani (AGIUS), Francesco Leone, e il presidente del Centro Studi Paolo e Rita Borsellino, Vittorio Teresi - “oggi la situazione è situazione complicata”. “Nel senso che - ha spiegato il procuratore capo - se la Cosa nostra che conosciamo non è più visibile, noi che ascoltiamo le voci dentro l’organizzazione possiamo dire che sono uguali alle voci che abbiamo ascoltato negli anni ’90 e nel primo decennio degli anni ‘2000. Sono, in termini di applicazione di regole e di affari, gli stessi ragionamenti che hanno condotto sempre. Certo i grandi capi non ci sono più. La commissione non si riunisce dal 1993, ma le indagini ci hanno spiegato quanto cosa nostra abbia tentato di riorganizzarsi attraverso nuovi vertici che grazie allo sforzo investigativo non sono riusciti a diventare realtà. Ma le regole ci sono e l’organizzazione continua a funzionare”, ha riassunto il magistrato.
“E soprattutto l’organizzazione in questo momento ha compreso che per tornare ad essere forte deve tornare ad essere ricca, e farlo significa cercare di rientrare in quel mercato degli stupefacenti da cui era rimasta fuori a cavallo delle stragi del ’92. Il loro sforzo non è confliggere con la ‘Ndrangheta, che è il broker europeo del traffico di stupefacenti, ma aprire una serie di affari, di join venture, trattando del mercato palermitano e siciliano dove la domanda è forte e bisogna offrire quanto serve”. Secondo de Lucia, i boss di Cosa nostra “non hanno mai lasciato il territorio” e il segnale di ciò sono le estorsioni. “La politica dell’estorsione, che serve a marcare la presenza nel territorio, è rimasta”, ha commentato. Quindi, in conclusione, de Lucia ha parlato del ruolo della società civile. Un fattore dal quale “si identificano i germi della voglia di mafia”.
Il contesto sociale
E a proposito di contesto sociale, nello specifico della memoria sul contesto sociale e culturale degli anni dello stragismo mafioso a Palermo sono intervenuti Albanese, Teresi e Leone. I tre hanno ricordato la tragedia del 25 novembre 1985 quando un tragico incidente, che coinvolse alcune auto di scorta dei magistrati del Pool Antimafia, stroncò le giovani vite di Biagio e Maria, falciati alla fermata del bus. Una “strage della grande emergenza”, così veniva descritta dai cronisti dell’epoca, quando alla vigilia del maxiprocesso forze dell’ordine, magistrati e cittadinanza vivevano un estremo stato di tensione. “Una tragedia incredibile - ha spiegato Albanese - che allora sconvolse la città intera. Erano gli anni della lotta antimafia, a Palermo. Gli anni in cui si correva tanto in città: le scorte, il maxiprocesso alle porte, i nostri morti ammazzati dagli squadroni della morte”.
“Nel ricordo di Biagio Giuditta intendiamo assumere un ruolo attivo dentro la società, sensibilizzando e mobilitando le migliori energie di questa città in tutte le sue componenti”, ha affermato Vittorio Teresi, magistrato (oggi in pensione). “A trent’anni dalle stragi di mafia del ’92, Cosa nostra rimane pervicacemente infiltrata sia nel tessuto economico-sociale, che nelle istituzioni”, ha dichiarato Leone, presidente dell’AGIUS.
Foto © Paolo Bassani
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