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Il 6 agosto è una data tristemente significativa, segnata dalla perdita di tre uomini dello Stato: il Procuratore della Repubblica Gaetano Costa, assassinato nel 1980, e il vicequestore Ninni Cassarà e l'agente Roberto Antiochia, uccisi nel 1985. Tutti e tre gli omicidi avvennero a Palermo.
Il Procuratore capo di Palermo, Gaetano Costa, fu assassinato mentre camminava lungo via Cavour, una strada centrale, senza la scorta che gli sarebbe stata assegnata solo il giorno successivo. Fu colpito alle spalle: ucciso perché aveva capito prima di altri che la mafia si era infiltrata nella "cosa" pubblica, in una Sicilia in cui Cosa Nostra guadagnava miliardi mentre le istituzioni facevano finta di non vedere. Nonostante la Corte d'Assise di Catania abbia esaminato il contesto del delitto, individuandolo nell'ambito di affari, politica e crimine organizzato, a tutt'oggi non ci sono colpevoli, né mandanti né esecutori.
Anche le morti di Cassarà e Antiochia nascondono misteri e ombre. Cassarà era stato un importante collaboratore della Polizia di Stato, supportando i magistrati Falcone e Borsellino nella lotta contro la Cosa Nostra. A lui si deve il "Rapporto dei 162", fondamentale per il maxi processo dell'86. Antiochia, trasferito a Roma nel 1985, tornò a Palermo per aiutare i suoi ex-colleghi e lavorare con Cassarà.
Il 6 agosto 1985, mentre Cassarà rientrava a casa scortato da due agenti, fu oggetto di un attacco a fuoco da parte di nove uomini armati con fucili AK-47. Antiochia, sceso dall'auto per aprire la portiera a Cassarà, fu colpito dai proiettili e morì di fronte al portone del palazzo. Cassarà fu ferito e spirò tra le braccia della moglie Laura, accorsa in lacrime dopo aver assistito alla scena dal balcone. Dopo la morte di Beppe Montana, Cassarà aveva capito di essere nel mirino della Cosa Nostra e si era nascosto negli uffici della squadra mobile. Tuttavia, il 6 agosto decise di uscire, e fu atteso da un commando di Cosa Nostra. La domanda rimane: chi li aveva avvisati? C'era una talpa? Interrogativi ancora senza risposta.
Come sono senza risposta alcune 'operazioni' che avvennero dopo l'omicidio.

L'agenda rossa di Cassarà
A Palermo, il connubio tra il presente e il passato è soffocante, alimentato da un flusso incessante di denaro, quello stesso denaro che Ninni Cassarà e il giudice Falcone cercavano instancabilmente. Dopo aver concluso le indagini del maxiprocesso, che aveva smascherato l'ala militare dell'organizzazione criminale, il poliziotto e il magistrato avevano puntato la loro attenzione sui patrimoni illeciti dei mafiosi, celati nelle profondità della Svizzera attraverso alleanze insospettabili. Alla fine di giugno, avevano viaggiato insieme a Lugano, collaborando con le autorità svizzere per indagare su Vito Roberto Palazzolo, il tesoriere dei Corleonesi, l'architetto di Terrasini che aveva ideato il complesso sistema di riciclaggio per la Pizza Connection, il più vasto affare di droga mai gestito dai boss criminali, dall'Oriente Medio agli Stati Uniti, attraversando la Sicilia. Poco prima della sua tragica morte, Cassarà aveva spedito documenti alle istituzioni svizzere; dopo il suo decesso, dalla squadra mobile era giunta una comunicazione da Lugano: la polizia aveva appreso che la busta era stata ricevuta aperta e alcuni documenti mancavano. Nel frattempo, in quell'estate drammatica del 1985, l'agenda rossa di Cassarà era misteriosamente svanita dal suo ufficio. In questa occasione, il legame serrato tra il passato e il presente di Palermo si intrecciava in modo ineluttabile. Per almeno cinque anni, l'ufficio del procuratore di Palermo, ora guidato da Maurizio de Lucia, aveva richiesto tramite una rogatoria al Sudafrica il sequestro del tesoro di Vito Roberto Palazzolo, ma le autorità sudafricane non avevano risposto.

Il processo
Ma chi aveva voluto l'omicidio di Cassarà, e quindi di conseguenza quello di Antiochia? Allora il giudice Giovanni Falcone disse che Cassarà aveva avuto più traditori di Stato. Talpe che avevano fatto soffiate ai boss. Solo uomini in divisa infatti potevano conoscere i movimenti del vice-questore. Il suo agguato, come poi si venne a scoprire, era pronto da mesi. Ma per arrivare a questa conclusione, accertata in sede giudiziaria, si dovette aspettare qualche tempo. Nel 1989 iniziò il processo "Michele Greco + 32", che unificava le indagini sulla morte di Montana, Cassarà e Antiochia. La sentenza di primo grado, emessa il 17 febbraio 1995, condannò i principali esponenti della Commissione (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Bernardo Brusca e Francesco Madonia) all'ergastolo in qualità di mandanti, con sentenza poi confermata nel 1998 dalla Cassazione.
Durante il processo celebrato nel 1997 contro "Francesco Madonia + 25", il pentito Francesco La Marca riferì che per uccidere Cassarà i capi mandamento si erano accordati per far partecipare uno o più membri di ogni "famiglia". La prima riunione avvenne il 3 agosto, subito dopo la morte di Marino, al Fondo Pipitone, nel garage di Enzo Galatolo. Arrivato là, La Marca trovò il suo capo Nino Madonia insieme a Pippo Gambino, Raffaele Ganci, i fratelli Enzo, Giuseppe e Raffale Galatolo, Calogero Ganci, Giovanni Motisi, Paolo Anzelmo, Salvatore Biondino e altre persone che non conosceva, in tutto una ventina.
Su ordine di Raffaele Ganci, La Marca rubò un vespone e un vespino, portandoli al Fondo Pipitone, che però non vennero usati nella strage. Durante il sopralluogo in via Croce Rossa con Nicola Di Trapani verificarono che la radio ricetrasmittente fosse in grado di ricevere messaggi alla distanza di cento metri dal portone della casa di Cassarà. Il 6 agosto, appena la radio trasmise la notizia dell'arrivo del commissario, tre gruppi di uomini salirono le scale e si piazzarono alle finestre del secondo, terzo e quarto piano, in attesa dell'Alfetta bianca di Cassarà che venne raggiunta da una pioggia di proiettili. Il commando poi, come se nulla fosse, si dileguò senza difficoltà.
Fondamentale nell'accertamento della verità fu il contributo di Saveria Antiochia, la madre del poliziotto caduto quel pomeriggio d'estate con Ninni Cassarà. Le sue battaglie politiche e sociali fecero in modo che non si spegnessero mai i fari della ricerca di verità su quell'agguato.

Costa: un giudice solo nel “palazzo dei veleni”
Già dagli anni Sessanta, questo giudice integerrimo e di poche parole era consapevole di come la mafia agraria si fosse infiltrata nell'amministrazione pubblica, controllando appalti, assunzioni e gestioni varie. Nel 1978, Costa divenne il nuovo procuratore capo della Procura di Palermo e si trasferì al "palazzo dei veleni", così chiamato per le polemiche che coinvolgevano chiunque cercasse di contrastare l'omertà e l'indifferenza. Con una dichiarazione di indipendenza, si contrappose a tutti coloro che preferivano negare l'esistenza della mafia.
L'unico con cui poteva parlare senza riserve era il capo dell'Ufficio Istruzione di Palermo, Rocco Chinnici. Si scambiavano informazioni sulle ultime inchieste nell'ascensore, l'unico luogo sicuro da sguardi indiscreti. Le indagini riguardavano le famiglie Spatola, Gambino e Inzerillo, collegando la mafia siciliana a quella americana e il nuovo business della droga condiviso da entrambe.
Boris Giuliano, lo "sceriffo", capo della Squadra Mobile di Palermo, pagò con la vita il 21 luglio 1979 per queste indagini, mentre Emanuele Basile, capitano dei carabinieri della compagnia di Monreale, fu ucciso l'anno successivo. Questi omicidi legavano il procuratore Costa alla stessa pericolosa trama.
Dopo la morte di Basile, i carabinieri arrestarono 33 persone, e Costa, nonostante le previsioni degli avvocati, firmò gli ordini di cattura assumendosi la piena responsabilità. La moglie di Costa, Rita Bartoli, affermò in un'intervista al Corriere della Sera nel 1983: "Mio marito fu lasciato solo a firmare i mandati di cattura contro la cosca Spatola-Inzerillo. Qualcuno lo additò addirittura come unico responsabile di quei mandati. Lo andarono a raccontare in giro agli avvocati dei mafiosi, ai giornalisti". Ancora oggi quelle firme pesano come un macigno.
Gaetano Costa fu ucciso il 6 agosto 1980 a Palermo, in via Cavour, mentre stava sfogliando un giornale davanti a un'edicola. Ironia della sorte, il giorno dopo avrebbe ricevuto la scorta.
Nonostante siano passati 43 anni dalla sua morte, nessuno è stato condannato per questo omicidio. La sua memoria e la sua lotta contro la mafia restano indelebili nella storia.

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