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Luca Tescaroli: “Cosa nostra voleva condizionare la politica legislativa incidendo sul regime penitenziario”

Le stragi del '92-'93 non sarebbero state fatte secondo la metodologia ‘classica’ di Cosa nostra ma con connotati più terroristici.
Lo stesso ex boss di Brancaccio ed ora collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza aveva espresso i suoi dubbi con questa celebre frase: "Ci siamo portati dietro morti che non ci appartengono”. Le parole erano dirette al capomafia Giuseppe Graviano ad un appuntamento a Campofelice di Roccella, in un periodo compreso tra la fine del '93 e gli inizi del '94. Lo steso periodo in cui veniva pianificato l'attentato allo stadio Olimpico che avrebbe dovuto colpire un bel po' di carabinieri.
In più sedi l'ex killer di Cosa Nostra ha spiegato ulteriormente quel pensiero. “Per Capaci e via d’Amelio - ha detto Spatuzza - per quello che mi riguarda erano nemici anche miei, anche se non li ho mai conosciuti, e in quell’ottica per me andava bene anche usare modalità terroristiche…  ma quando andiamo a mettere cento e passa chili di esplosivo in una strada abitata non è più qualcosa… stiamo andando verso qualcosa che non ci appartiene più”.
Ma perché avvennero le stragi? Chi sono i mandanti esterni? Quale fu il ruolo dei boss Matteo Messina Denaro e dei fratelli Graviano?
A queste domande si è cercato di rispondere durante lo Speciale del TG1 sulle stragi di mafia del 1993 realizzato da Maria Grazia Mazzola dal titolo "La notte delle bombe”, andato in onda domenica 21 maggio a mezzanotte su Rai 1: alle 1.04 della notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 un'autobomba esplose in via dei Georgofili a Firenze, sotto la Torre dei Pulci, nei pressi della Galleria degli Uffizi, uccidendo cinque persone, Fabrizio Nencioni e Angela Fiume, le figlie Nadia di 9 anni e la sorellina Caterina di 50 giorni, e lo studente Dario Capolicchio. Nell'attentato restarono ferite 38 persone e il patrimonio storico-artistico gravemente danneggiato. A trent'anni dalla strage voluta dalla mafia terrorista per piegare lo Stato e costringerlo a scendere a patti sulle leggi sui pentiti e il carcere duro, il servizio ripercorre quei drammatici fatti: oltre ai morti di via dei Georgofili vi furono anche quelli di Milano in via Palestro, l’esplosione mafiosa uccise tre vigili del fuoco, Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno, l’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari, che col loro intervento salvarono i cittadini, e un immigrato Driss Moussafir che dormiva su una panchina.


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E poi ancora il racconto di coloro che furono impegnati sul campo, il ricordo dei testimoni, le interviste a magistrati e investigatori. Foto storiche e atti delle inchieste hanno portato a scoprire mandanti e esecutori delle stragi in continente. Uno di quei condannati mancava all'appello: era il super latitante Matteo Messina Denaro. Nel gennaio scorso è stato arrestato nell'operazione chiamata Tramonto, come l'ultima poesia scritta da Nadia.
Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano avevano un rapporto strettissimo, erano come "il secchio e la corda" ha detto Francesco Messina, Direttore Centrale Anticrimine della Polizia di Stato: "Hanno condiviso questa idea di provocare, di colpire diciamo, il patrimonio artistico al fine di trovare una possibilità di collegamento di interlocuzione con qualcuno che potesse ascoltare la loro richiesta che riguardava l’abolizione del 41 bis l’abolizione della legislazione sui pentiti".

Le bombe del dialogo e quella Trattativa che ci fu
Un camion con mille chili di esplosivo partì da Palermo nel 1993 e attraversò indisturbato l’Italia. Il mezzo, guidato da Pietro Carra, trasportò il carico fino a Roma, Firenze e Milano dove poi avvennero gli attentati. L’inchiesta di Maria Grazia Mazzola ricostruisce dei fatti accertati da sei sentenze definitive e si sofferma sugli interrogativi irrisolti di quella stagione di sangue e bombe.
Tra le interviste contenute nello speciale vi è quella del procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, titolare delle indagini sui mandanti esterni (nello specifico a carico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri).
"Non si è compreso fino in fondo quella che è stata la portata, la gravità e la violenza degli attentati che l’organizzazione mafiosa Cosa nostra ha organizzato nel biennio '93 e '94", ha detto il magistrato, precisando che "in concomitanza con le tre stragi nelle città di Milano e di Roma, le comunicazioni a Palazzo Chigi furono interrotte e il presidente del consiglio Carlo Azeglio Ciampi disse di avere temuto un colpo di Stato".


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"Ci sono state sette stragi compiute o comunque pianificate nell’arco di 11 mesi. Dal 14 maggio'93 al 14 aprile del 94 con le bombe si voleva aprire un dialogo con il mondo politico istituzionale nel quadro di trattative con esponenti delle istituzioni che erano in corso, e si voleva condizionare la politica legislativa incidendo sul regime penitenziario cercando di ottenere l’abolizione del carcere duro, del 41 bis" e di incidere sulla legislazione che prevedeva "il sequestro dei beni e la confisca".
La certezza che trattativa ci fu è contenuta nella sentenza passata in giudicato sulla strage di via dei Georgofili: "La sentenza usa testualmente espressione trattativa - ha detto Tescaroli - e riconosce che la trattativa è stata avviata non da Cosa nostra ma è stata avviata dagli appartenenti al vertice del reparto operativo speciale di carabinieri. Mentre erano in corso le stragi nel 92, hanno ritenuto di prendere contatti con i vertici mafiosi. Fu un segnale che spinse a continuare nella campagna stragista. Questa fu la percezione di Cosa nostra aldilà della volontà di chi ha posto in essere quell’iniziativa".
I corleonesi dal canto loro volevano "alzare il tiro", come ha detto Francesco Messina, "per indurre qualcuno a tornare a interloquire" e "eliminare questa spina nel fianco che era caratterizzata dalla legislazione antimafia".
Lo stesso concetto è stato ripreso da Tescaroli durante la presentazione del libro "Georgofili: le voci, i volti, il dolore a trent'anni dalla strage" che sarà distribuito venerdì 26 maggio in edicola in abbinamento gratuito con "La Nazione". Cosa nostra voleva, di fatto, smantellare quella "normativa antimafia che oggi noi diamo per scontato ma che è il frutto del sangue versato". Da qui il monito del procuratore aggiunto di Firenze a proposito del ricorrente dibattito sul regime del 41 bis: "Riflettiamo quando oggi con una certa disinvoltura si considera questo strumento non più adeguato e addirittura lo si ritiene incostituzionale a fronte di pronunce della Corte europea e della Corte Costituzionale che ne hanno invece riconosciuto la piena legittimità".
"Rimangono, invero, in ordine ai fatti stragisti del biennio spunti investigativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell'ideazione e nell'esecuzione della strage".


messina francesco tg1

Francesco Messina, capo dell'Anticrimine della Polizia di Stato


Le bombe per Maurizio Costanzo
"Dalle sentenze passate in giudicato emerge che il giornalista doveva essere ucciso" per via del "suo impegno" antimafia ha ricordato Tescaroli. "Vi fu la volontà di punirlo per quello che aveva detto nei confronti dei Madonia": "Nel corso di una trasmissione aveva anche augurato che venisse un brutto male" a un capostipite dei Madonia".
Ricordiamo che era dal teatro Parioli che andava in onda il Maurizio Costanzo Show. Lo stesso giornalista aveva anche ospitato Giovanni Falcone in una delle sue trasmissioni: "Ero molto felice di avere Falcone ospite nel mio programma. Lui alla fine andando via mi ringrazio per il mio impegno contro le mafie. In quella puntata ho bruciato anche una maglietta con scritto 'Mafia - Made in Italy'".
Sia Costanzo che la moglie Maria De Filippi si "sono salvati miracolosamente a seguito del fatto che Cristoforo Cannella commise un errore nell’inviare il segnale, non fu tempestivo, e quindi il segnale fu mandato con ritardo e fortunatamente sono sopravvissuti" ha ricordato il magistrato fiorentino.
Su questo attentato il pentito Gaspare Spatuzza aveva dato una sua chiave di lettura. Totò Riina aveva già ordinato ad altri in passato di pedinare a Roma e poi sparare al conduttore nel 1992. Poi il “Capo dei capi” ordinò lo stop e avviò la stagione degli attentati a Capaci il 23 maggio 1992. Il pentito ha quindi spiegato in un verbale il movente delle stragi del 1993 e il cambiamento della modalità di svolgimento di queste ultime con il tritolo che prende posto alle pallottole: “Se nel 1992 Costanzo era un nemico di Cosa Nostra che si vuole vendicare per gli attacchi subiti da lui in televisione, e per questo va ucciso con le armi, così da mettere la firma, nel 1993 invece è prevista l’utilizzazione nei confronti di Costanzo dell’esplosivo e da ciò deduco che questa azione si è collocata nell’ambito di quello che ho prima definito un’unica strategia del colpo di Stato con metodi terroristici (…) Credo si debba fare un’assimilazione con l’attentato di Via d’Amelio: come Paolo Borsellino era un ostacolo alla Trattativa, Costanzo rappresentava un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi che con la strategia stragista si dovevano perseguire e per tale ragione si è fatto ricorso all’impiego dell’esplosivo abbandonando l’impiego delle armi leggere”.


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I frutti della Trattativa
Quel che l’efficace contrasto insegna è che mafia e terrorismo, se si vogliono annientare, debbono essere osteggiati da tutte le forze politiche (come è accaduto per il terrorismo interno), dagli uomini delle istituzioni e da tutti i cittadini.
L’iniziativa del 1992 - che vide coinvolto Mario Mori e Giuseppe De Donno - di contattare i vertici di cosa nostra per ‘capire cosa volessero’ in cambio della cessazione delle stragi produsse l’effetto di convincere i capi mafiosi che la strage era idonea a portare vantaggi per l’organizzazione ed ebbe un effetto deleterio per le Istituzioni, confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato.
Così hanno scritto i giudici della Corte d’Assise di Firenze del giugno 1998, che si sono occupati delle stragi del biennio ’93-’94. A Palermo, il 19 luglio 1992, vennero dilaniati con un’autobomba Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. Il 21 luglio 1979 venne assassinato il vicequestore Boris Giuliano. Il 28 luglio 1985 il commissario Beppe Montana. Il 29 luglio 1983 il giudice istruttore Rocco Chinnici, con due carabinieri di scorta e il portiere dello stabile ove abitava. Si è verificato il 6 agosto 1980 l’assassinio del Procuratore della Repubblica Gaetano Costa e lo stesso dì, cinque anni dopo, furono ammazzati il commissario Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. Il 3 settembre 1982 è toccato al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, alla moglie Emmanuela Setti Carraro e all’agente Domenico Russo. Il 15 settembre 1993 fu la volta di padre Puglisi e il 25 settembre 1979 del giudice Cesare Terranova e dell’agente Lenin Mancuso. Una sequenza di crimini che ha generato annualmente numerose cerimonie di commemorazione che inducono i parenti delle vittime, coloro che si trovavano in quelle città e molti cittadini (tanti non ancora nati quando si sono verificati quei delitti) a ricordare ogni tragedia. A cosa servono o a cosa dovrebbero servire tutti questi anniversari? Oltre a ricordare quanto è già avvenuto, dovrebbero servire per preservare gli strumenti repressivi che hanno consentito di ottenere quei risultati, per non commettere altri errori e per non intavolare altri ‘dialoghi’.

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