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L’incredibile storia di un normale imprenditore che ha denunciato il racket ed è stato abbandonato dalle istituzioni. “Rivoglio la mia vita indietro”

Giuseppe Balsamo è un imprenditore palermitano, un marito, un padre. Giuseppe Balsamo, però, è anche un testimone di giustizia, sebbene lo Stato ancora non lo riconosca come tale. Da otto anni vive con il fiato sul collo, sa che qualcuno vuole vendicarsi delle sue denunce, dei suoi proclama, del fatto che non si piegò al ricatto. Minacce, furti, incendi, Giuseppe Balsamo ha subito tutto ciò che solitamente subisce un commerciante che non si genuflette al racket della mafia. E come gli altri commercianti ed imprenditori che denunciano, anche lui, purtroppo, ha assaporato uno stato di isolamento ed abbandono.

L’imprenditore denuncia reticenze, negligenze, errori per certi versi inspiegabili da parte di organi di Stato che sono chiamati a tutelare i cittadini. Istituzioni che, speriamo, possano chiarire anche le loro posizioni.

Negli ultimi anni Giuseppe e la sua famiglia si sono trovati a vivere di stenti, a umiliarsi per poter mangiare ed avere un tetto sulla testa. Eppure Balsamo ha fatto il suo dovere: denunciare. E lo rifarebbe ancora. Oggi aspetta di essere riconosciuto ufficialmente come testimone di giustizia. Lo Stato non può e non deve negarglielo. Nel frattempo, però, non resta con le mani in mano. Scrive, indaga, racconta e spera che presto possa avere giustizia e riacciuffare quella tranquillità che gli venne strappata diversi anni fa. Ai nostri microfoni ha raccontato il suo calvario, passo dopo passo. Una storia che tutti dovrebbero conoscere.


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Partiamo dall’inizio, il 2014, anno in cui tutto cominciò.
Sì, nel 2014 stavo aprendo un Compro Oro al quartiere Noce di Palermo. Era un lavoro che già svolsi nei tre anni precedenti. Il 16 giugno, mentre ristrutturavo, mi venne a trovare in negozio un certo Salvatore Pecoraro, che conoscevo già perché aveva un panificio vicino a dove avevo il Compro Oro prima. Io non c’ero perché ero fuori ma c’era mia moglie e le chiese di parlare con me. Arrivato in negozio lo andai a trovare, andammo in piazza Noce a prenderci un caffè e mi disse: “Sicuramente da quel che ti dirò non mi saluterai più. Ho saputo che ci sono delle persone che ti devono venire a trovare e ti devono chiedere 3000 euro per metterti apposto”.

Ti aveva chiesto il pizzo in pratica.
Si, poi succede che nel tragitto passammo davanti a un rivenditore di panelle di un certo Calogero Cusimano. Questi salutò Pecoraro e gli disse: “Ma che stai facendo?”. E dopo averlo osservato insistentemente aggiunse: “Mi raccomando, è amico nostro”. Non so cosa volesse dire ma Pecoraro rispose infastidito: “E allora se è amico nostro pensaci tu”. Pecoraro mi salutò raccomandandomi di trovarmi un amico che mi aiutasse per questa storia dei tremila euro. Io però appena me ne andai passai al Commissariato Noce e raccontai l’accaduto all’ispettore Alessandro Bonsignore che già conoscevo perché ci diede le licenze per il Compro Oro e immediatamente lo avvertì che mi avevano chiesto il pizzo. Il pomeriggio mi prese un appuntamento all’Anticrimine. Qui incontrai il Commissario Prestigiacomo a cui raccontai tutto. Lui mi disse che ci saremmo visti i giorni seguenti. Nel frattempo, però, un mio cugino poliziotto mi fece conoscere il commissario Lo Bue della squadra mobile al reparto SCO che è il reparto che si occupa proprio delle denunce di estorsione e pizzo. Parlai con Lo Bue e gli raccontai tutta la storia aggiungendo che avevo parlato con Prestigiacomo. Lui quindi lo chiamò dicendogli che da quel momento di me se ne sarebbe occupata la SCO e che potevano evitare di fare le loro indagini. Lo Bue mi diede il suo numero privato. Io ritornai al negozio, finì di fare i lavori e ricevetti la licenza Compro Oro per poter iniziare l’attività.

Nel frattempo, però, chi venne a chiederti soldi non restava a guardare...
No, affatto. Questo Pecoraro, detto “Totò”, iniziò a chiedermi un incontro più frequentemente. Ogni giorno, due volte al giorno, veniva a bussarmi al negozio perché voleva una risposta da me. Io intanto avevo messo all’ingresso un adesivo microforato che consentiva a me di vedere da fuori senza che lui potesse vedere dentro. Non gli aprivo mai la porta. Avevo le telecamere e mi accorgevo quando lui stava arrivando. Insomma lo lasciavo all’esterno. Fino al 4 luglio, in questo tratto di tempo, si inserisce un’altra persona di mia conoscenza, Giulio Vassallo, che mi disse che aveva sentito Pecoraro il quale gli aveva chiesto (a Vassallo, ndr) di fare da tramite per farmi fare un incontro con lui. Io gli dissi che non avevo nulla da dirgli. E lui mi rispose “è meglio che gli parli perché lui ti può aiutare”. Lui mi fissò degli appuntamenti ma io non ci andai mai. Vassallo si arrabbiò pure per questa mia disobbedienza nei confronti sia dell’uno che dell’altro. Tutto quello che vivevo io lo raccontavo telefonicamente al commissario Lo Bue, cioè lo Stato, l’unico con cui potevo parlare.


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Parliamo di luglio di quell’anno, mese cruciale...
L’11 luglio Pecoraro, accompagnato dal figlio Nicolò, si mise di fronte la strada del mio negozio per aspettarmi. Quando arrivai mi urlò “sei un buffone, ti ho mandato a cercare e non vieni mai”. Io gli dissi che non avevo nulla da dirgli né soldi per pagare nessuno. E lui mi mise in guardia: “Vedi che ti succedono cose gravi, evita. Sto venendo io perché ti conosco ma dopo di me verranno altre persone che sono pericolose”. Io gli ripetei: “Non ho soldi da dare a nessuno, posso anche chiudere ora il negozio e andarmene”. Lui quindi si agitò un po’ e io gli dissi “va bene poi ne parliamo”. E me ne andai ma cercai, come sempre, di non incontrarlo.

Poi?
Passò qualche giorno. E successe che il 17 luglio mattina trovai l’attack nel catenaccio del mio negozio. A quel punto chiamai il commissario Lo Bue il quale mi fece poi chiamare da qualcuno che si occupava di quella zona e mi suggerì di “non raccontare che ti hanno chiesto il pizzo”. Io accettai. Mentre aspettavo la Polizia mi telefonò il Commissario Manzella di quel reparto che mi disse che potevamo vederci alla Mobile l’indomani e non il giorno stesso perché era impegnato. E così facemmo io e mia moglie, che è titolare del negozio. Andammo e raccontammo di nuovo, per la terza volta, tutto quello che era successo, con i nomi e cognomi, e allora Manzella mi disse: “Venga questo pomeriggio che facciamo la denuncia”. Il pomeriggio ritornai, mi fecero vedere delle fotografie per un riconoscimento. E mi chiese di estrapolare le registrazioni delle telecamere di quando questo Pecoraro veniva a suonare alla porta. Io tornai al locale con il sovrintendente Maritati. Una volta estrapolate le immagini tornammo alla Mobile. Io pensavo che Manzella mi stava facendo compilare una denuncia perché avevo subito richiesta di pizzo. E per questo ero contento e tranquillo. Pensavo di avere accanto a me lo Stato. Ma mi sono accordo successivamente di altro. Ad ogni modo a fine denuncia mi disse di stare tranquillo e io gli raccontai una cosa strana che mi era successa il 15 luglio, quando rientrando nella mia villetta a Fondo Petix, quartiere Cruillas, sentì come chiamarmi con un bisbiglio da qualcuno dentro il giardino di casa. Manzella mi rassicurò dicendomi: “Dopo la sua denuncia c’è sempre qualcuno che le cammina dietro, può stare tranquillo che da solo non ci starà più”. Io pensavo che chi mi camminava dietro era la polizia.

E invece?
Invece non era così, perché il 13 settembre - e voglio sottolineare che nel mentre dal 18 luglio non si è più fatto sentire nessuno - due uomini incappucciati e con i guanti, aspettando che rientrassi in casa con mia moglie e che spegnessi l’allarme, mi hanno spinto e mi hanno puntato le pistole addosso. Mi chiesero di aprire la cassaforte. Io risposi di non averla e mi schiaffeggiarono. A quel punto vidi che mia moglie era agitata e quindi andai ad aprirla.
Loro erano tranquilli perché penso che ci fosse qualcuno che faceva da palo.  Ad ogni modo, dopo aver svaligiato la cassaforte, uno di loro ci disse di prendere due sedie, ci ordinò di sederci nel terreno fuori casa. Lo stesso ci legò e imbavagliò e poi mi minacciò. “Ora vediamo se ti scanti (se ti spaventi, ndr)”. Quindi li vidi entrare in casa con un bidone. Uno di loro, quello che era andato alla cassaforte, uscì con una fodera da cuscino penso piena di oggetti di valore, quelli che erano dentro la cassaforte. Aprì il portone e dopo un po’ uscì anche l’altro. E poi ci fu una vampata. La mia casa venne data alle fiamme. Mi hanno fatto vedere in diretta la villa che bruciava.


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Come ne sei uscito?
Incominciai a tagliare con i denti il nastro che mi copriva la bocca e incominciai a gridare. Nel frattempo a 600 metri di distanza da casa c’era una sala d’intrattenimento e proprio in quel momento c’erano dei giochi d’artificio lì sopra. Nessuno sentì nulla ma i vicini si precipitarono comunque da noi perché pensavano che la casa stava bruciando perché un fuoco pirotecnico ci era finito dentro. Quindi ci hanno liberati, ci hanno fatti allontanare e chiamato il 112. Intanto i due incappucciati si erano dileguati.

E tua figlia?
Per fortuna la piccola era da mia madre, perché io quella sera ero uscito con mia moglie al cinema. Poi chiamai subito il commissario Lo Bue, perché anche se avevo parlato per ultimo con Manzella, nessuno mi aveva dato un numero per rintracciarlo. Erano le tre di notte. Gli raccontai tutto e mi diede appuntamento per il giorno dopo al commissariato Noce. Prima però chiamai i miei avvocati Forello e Caradonna che in quel momento rappresentavano Addiopizzo e che conobbi a fine luglio. Caradonna mi diede appuntamento con Forello e insieme a lui c’era anche il collega D’Antoni. E insieme andammo alla Mobile dove incontrai il presidente di Addiopizzo Daniele Marannano. Qui parlai con l’ispettore Rega, perché Manzella era assente e fu lui a prendere questa denuncia. Ma solo oggi scopro che tutto quello che si era appuntato erano solo sommarie informazioni.

Cosa intendi?
Che quel giorno la SCO, come quando andai a denunciare il fatto dell’attack, raccolse la mia denuncia non come una denuncia vera e propria, ma come sommarie informazioni. E la differenza è enorme. Perché quando un ufficiale di Pg prende verbali di resa di sommarie informazioni è come se questi sia già al corrente di quanto accaduto e sente la vittima o il testimone a chiarimento su fatti di cui le autorità sono già a conoscenza. Le denunce sono altro, è raccontare quel che è successo da zero senza che le autorità ne siano al corrente.


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Ma tu hai fatto presente questa cosa?
Io non sono avvocato, l’ho scoperto molto dopo. Io ho parlato con la polizia il 15, il 18 e il 20 settembre. In ognuno di questi incontri c’era un avvocato diverso. Il 19 settembre Forello, tramite la Fai (di cui fa ancora oggi parte insieme a D’Antoni), l’associazione antimafia di Tano Grasso, e non con Addiopizzo, inviò alla prefettura la richiesta di un risarcimento per entrare nel fondo di rotazione. Oggi mi sento vittima da parte delle associazioni e da parte della Squadra Mobile. Perché nessuno mi è venuto a cercare, nessuno mi ha detto cosa fare e nessuno mi ha detto perché non l’hai fatto.

Ma quando sei andato alla SCO ti hanno chiesto se volevi fare un esposto o qualcos’altro?
No, hanno sempre fatto ciò che volevano. Uno degli avvocati che mi assisteva avrebbe dovuto far presente all’ufficiale che a me hanno bruciato la casa e che io avrei dovuto fare denuncia con querela contro ignoti, non sommarie informazioni. La Mobile invece ha sempre fatto ciò che voleva. Questo, in un certo senso, mi ha fatto sentire come una vittima di bullismo. A me interessava solo scrivere su quella denuncia, che io chiamerò così fino alla morte anche se loro (la SCO, ndr) la definisce “sommarie informazioni”. Il mio pensiero, ad oggi, è che per qualche ragione a loro interessava che le mie dichiarazioni fossero catalogate come sommarie informazioni.

Tutto questo cosa significa?
Significa che io non sono diventato testimone di giustizia perché è stato dichiarato che io non ho denunciato. E’ una cosa assurda. Io non sono diventato testimone di giustizia perché tutte le volte che sono andato in commissariato, esponendo quanto mi era accaduto, la SCO ha preso le mie dichiarazioni come sommarie informazioni e non come esposto di denuncia.

E dopo quegli incontri in Commissariato?
Tutti spariti, tranne Forello e d’Antoni. Io non avevo dove dormire, non avevo più una casa, un vestito, nulla. Per sei mesi, da autunno a inverno, ho vissuto a Scopello da solo, nella casa estiva da mia madre, con il freddo. Mia figlia era stata anche male per gastroenterite. Sono stato abbandonato. Ad aprile 2015 reagì e tornai a Palermo dove mi affittai una casa con l’aiuto di mia madre. Qui venni contattato telefonicamente da un certo Cosimo Mercadante, che mi disse che aveva sentito informazioni sul mio orologio che mi era stato rubato nella mia cassaforte il 13 settembre, un Rolex da 27mila euro tutto in oro e con diamanti. Ci vedemmo a Partanna Mondello. Non fidandomi più di nessuno registrai l’incontro con il telefono e mi disse che a Partanna era cambiata la situazione e che il reggente era un tunisino, un certo Ahmed. Era lui a gestire il pizzo. Mi disse che Ahmed aveva assistito a tutta questa situazione.


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Cioè questo tunisino aveva ricevuto da qualcuno un’offerta di acquisto del Rolex?
Si, Mercadante mi propose di “farci dare qualcosa da loro” ma in cambio avrei dovuto ritirare le denunce. Io registrai il tutto e raccontai l’incontro a Forello il quale non mi credette subito. Quindi gli feci ascoltare la registrazione e, sorpreso, chiamò Manzella per informarlo. Dopo la telefonata l’avvocato mi riferì che, poiché non erano stati trovati indizi riguardo l’incendio di casa, la polizia non stava più seguendo il caso ma, a fronte di quanto successo, volevano incontrami il giorno successivo. Perciò l’indomani raccontai a Manzella quanto accaduto e pure lui mi prese per pazzo se non fosse che anche a lui feci ascoltare tutto a riprova di quanto affermavo. Manzella mi fece fare la denuncia, ma ancora una volta si trattava di sommarie informazioni. Di lì partì un’indagine con un sostituto procuratore. Mi diedero un cellulare che in realtà era un registratore con il quale la polizia avrebbe potuto ascoltare le mie conversazioni con Mercadante e questo Ahmed. La cosa finì ovviamente senza un nulla di fatto. Nel frattempo avevamo scoperto che volevano fregarmi altri 1200 euro, e che l’orologio non l’avevano, l’avevano solo visto.

E dopo quel periodo cosa accadde?
Passarono anni di crisi bestiale. Avevo aperto un negozietto di bracciali in via Maqueda ma non riuscivo nemmeno a ricoprire il mese. Il Compro Oro alla Noce era finito, non l’abbiamo più aperto. Quegli anni furono bruttissimi, parliamo dal 2014 al 2018. Nel 2017 avevo lo sfratto con morosità della prima casa che avevo affittato nel 2015, perché non potevo pagare l’affitto. Sempre a Cruillas. Non avevo nemmeno soldi per mangiare, andavo a prendere la spesa da Biagio Conte. Dall’avere villa e Rolex mi ritrovai che non avevo più niente. E non ho avuto aiuto da nessuno, né dallo Stato, né da Addiopizzo. Niente.


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Il 22 maggio 2018 alla Noce avvengono undici arresti nell’ambito dell’operazione “Settimo quartiere”. Tra questi c’erano anche alcuni dei tuoi aguzzini.
Sì, finirono in manette Calogero Cusimano, quello della panelleria, Salvatore Pecoraro e il figlio Filippo e Giulio Vassallo, che era era quello che mi diceva di andare da Pecoraro per mettermi d’accordo. Vennero anche denunciati a piede libero i due che mi chiedevano soldi per il Rolex. Le indagini le fece il Commissario Manzella, la Squadra Mobile. Ma vorrei fare una parentesi.

Prego.
Torno indietro al 2014. Il 18 luglio, il giorno dopo che trovai l’attack al Compro Oro, il commissario Manzella mandò un’annotazione di indagine alla procura di Palermo dove sosteneva di avere una fonte che gli diceva che mi stavano chiedendo il pizzo e che nei giorni precedenti alla richiesta di pizzo loro (la SCO, ndr) erano presenti sul luogo a vedere lui che mi veniva a suonare. Ma se così è allora doveva anche sapere chi è che mi aveva messo l’attack. Eppure ancora non sappiamo chi sia. E’ un uomo libero, mai arrestato. Lo stesso vale per chi mi ha bruciato casa, non sappiamo chi sia. La cosa assurda è che Manzella mandò questa annotazione in cui sosteneva di essere al corrente della mia situazione grazie una sua fonte, e non grazie alle mie denunce, dimostrandolo con le immagini delle mie telecamere che nel frattempo venne a chiedermi quella mattina. Non solo, Manzella aggiunse che non mi presentai a denunciare il 17 luglio. Perciò la telefonata in cui mi disse “oggi sono impegnato venga domani” la trasformò dicendo che non sono andato da lui a denunciare e che lui l’indomani è dovuto venire da me a chiedermi perché mi avevano chiesto il pizzo. Ma se io sono uno che non voglio denunciare non lo faccio neanche l’indomani. Invece Manzella si inventò tutta questa storia. Cioè cancellò tutto il percorso che io feci per arrivare da lui. Ti rendi conto? Io parlai prima con l’ispettore Bonsignore che poi mi mandò all’anticrimine dal commissario Prestigiacomo e poi un mio parente mi portò da Lo Bue e Lo Bue chiamò Prestigiacomo per dirgli che se ne sarebbero occupati loro. Perciò ci sono queste tre persone prima di Manzella che arrivò solo dopo, quando Lo Bue mi disse che mi avrebbe chiamato dopo l’episodio dell’attack.


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Riprendiamo con il 2018, cosa avvenne dopo gli arresti?
Dopo il blitz pensavano che fosse tutto finito e che io ero l’eroe del momento. Ma non era così.
Il 15 giugno 2018, dopo nemmeno un mese dagli arresti, qualcuno mi rubò la macchina da sotto casa. E me la ritrovai intatta a Borgo Nuovo grazie alla satellitare di cui era equipaggiata. Ma quel furto era un segnale, come per manifestare la volontà che qualcuno mi voleva fare fuori. Dopo un mese e mezzo, me la rubarono di nuovo e la ritrovai di nuovo a Borgo Nuovo, dentro il baule c’erano dei pc. Questo era un nuovo segnale. Andai da Rega, e feci una relazione in cui raccontai ciò che era successo. Scoprì che Rega non ne fece nulla e mise tutto nel cassetto. Non lo mandò in procura. Trattò quel verbale come se fosse un documento personale. Quindi il sostituto procuratore Righi non arrivandogli niente, al momento delle indagini, descrisse il mio caso come normale furto e dopo qualche giorno mandò al macero i computer.
Questo è ciò che accade con le sommarie informazioni. Quando ti accade qualcosa e fai sommarie informazioni ciò che dici non viene unificato in unico fascicolo ma diviso in vari fascicoli. Quindi si manda tutto in fumo.

Nel 2019 iniziano i processi contro gli arrestati alla Noce
Sì, io e mia moglie ci costituimmo parte civile. A gennaio 2020 chiesi a Forello e D’Antoni di fare richiesta di riconoscimento dello status di testimone di giustizia visto che ero stato minacciato e avevo denunciato ma loro mi dissero che per farlo dovevo aspettare che venissero condannate queste persone.
Ho fatto anche questa. Aspettai la sentenza e nel gennaio 2020 arrivarono le condanne. Salvatore Pecoraro venne condannato a 12 anni, il figlio Vassallo 11, Vassallo 3 anni. Cusimano, invece, venne  assolto.
Non ero soddisfatto di quella sentenza e lo dissi anche al sovrintendente Maritati. Lui mi rispose così: “signor Balsamo, le devo dire che abbiamo fatto male le nostre indagini?”. Ci rimasi malissimo perché io ci avevo messo la faccia.

Hai mai avuto qualche tutela, qualche protezione?
No, non ho avuto una tutela, ma nemmeno un volante fuori casa. Niente. Ho ricevuto solo vigilanza radiocontrollata. Dopo il pizzo, la casa bruciata, le macchine rubate, avrebbero dovuto almeno proteggermi.
Il 24 settembre 2021 ho ricevuto anche lettere di morte per me e la mia famiglia, un foglio con disegnate quattro croci. Io ho chiesto la scorta ma non è mai arrivata. Ma perché Manzella, Maritati e Rega avevano scritto in quella maniera le mie denunce. Il procuratore che riceve sommarie informazioni non può fare nulla, perché non gli arriva nulla. C’è un concorso di colpa da parte di queste persone. Nel 2016 andavo con la bicicletta da Cruillas fino a via Maqueda nel mio negozio per farmi ammazzare, io volevo morire. Ho perso la mia vita per aver fatto il mio dovere. Ho perso la mia dignità, ho dovuto chiedere da mangiare alla Chiesa, ho dormito in macchina per giorni a maggio di quest’anno. E’ assurdo, cos’ho fatto di male? Qual è stato il mio errore?


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Arrivate le condanne, hai proceduto a far richiesta per essere testimone di giustizia?
Prima che arrivasse la pandemia chiesi ai miei avvocati Forello e D’Antoni di fare richiesta ma non so perché mi dissero nuovamente che non potevo diventarlo. Quindi andai dal mio amico e testimone di giustizia Ignazio Cutrò per chiedere come fare. Lo andai a trovare a Bivona a febbraio. Appena gli raccontai quel che mi era successo mi chiese scusa lui, anche se non c’entrava nulla, per quanto mi era accaduto e per quanto mi aveva fatto anche Addiopizzo, che dovevano proteggermi, aiutare me in tutte le denunce e invece non fecero niente. Ritornai da Bivona con l’email di Piera Aiello in cui mi invitava a fare un’audizione alla Commissione Antimafia, cosa che nessuno mi aveva detto mai di poter fare. Erano tutte cose nuove per me fino a quel momento.

E come andò?
Feci richiesta di audizione e da febbraio 2020 ad oggi non ho fatto nessuna udienza. Ho fatto quattro richieste. Non mi hanno mai risposto quelli della Commissione.

Tu hai conosciuto altri testimoni di giustizia in questi ultimi anni, giusto?
Sì, a settembre 2020 incontrai a Roma alcuni testimoni, per lo più di Reggio Calabria. Mi hanno raccontato le loro storie. E come quella di Ignazio, sono tutte uguali. Ritornai a Roma e dissi a Forello, che al tempo era membro della Fai, che abbiamo chiuso perché ancora non mi aveva fatto fare richiesta di essere testimone di giustizia abbiamo chiuso. Quindi acconsentì a presentare richiesta. Era dal 2014 che lo chiedevo, e solo dopo sei anni mi dici che lo facciamo? A dicembre facemmo richiesta al procuratore di Palermo Francesco Lo Voi e al prefetto perché c’erano tutti i presupposti per diventare testimone di giustizia.

Forello mi disse che Lo Voi gli aveva detto che avrebbe preso eventuale considerazione di assegnarmi lo status di testimone, ma ancora non aveva visto la pratica. Forello cercò più volte di tranquillizzarmi, mi suggerì di non andare in giro a chiedere informazioni perché non c’era bisogno, mi disse che la pratica era a Roma. A maggio 2021 cambiai avvocato, Antonio Ingroia, che fece una nuova richiesta ma da Lo Voi non abbiamo avuto nessuna risposta. A ottobre 2021 ho incontrato Katia La Barbera, mio attuale avvocato, e avvocato di Cutrò. Lei ha scritto direttamente al ministero e questa volta riceviamo una risposta, Lo Voi però ha risposto picche.


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Cioè?
Ci aveva detto, in sostanza, che non ci sono i presupposti per tale richiesta e che le tutele che in questi anni ho avuto sono state sufficienti. Come ho detto, io ho solo vigilanza radiocontrollata, che non serve, perché a rispondere è un call center che non sa niente della mia vicenda. La tutela me la volevo fare io. Il 1° luglio 2018, tra il primo e il secondo furto della macchina. Feci richiesta per porto d’armi ad uso personale, la pratica sparì, a dicembre 2018 e a gennaio 2019 dalla prefettura mi dissero che avevano trovato la pratica ma che il prefetto aveva negato il mio porto d’armi perché la tutela era sufficiente. Ma di quale tutela stiamo parlando?

Vogliono ancora eliminarti?
Si, ne ho contezza e se smetto di fare annunci e di parlarne accadrà.

Rifaresti quello che hai fatto?
Sempre lo rifarei, perché è quella la mia strada: denunciare. Non ho rabbia, voglio solo giustizia.


Oggi la mia richiesta è una: voglio essere riconosciuto testimone di giustizia. Voglio questo riconoscimento, voglio riconosciuti i miei diritti. Ho una voglia pazzesca di aprire un negozio. Da quando ho 17 anni fino ad ora che ne ho 44 ho sempre lavorato. La mia vita non è questa, ho sempre fatto l’imprenditore. Rivoglio la mia vita indietro.

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