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È morto Francesco Geraci, l'ex collaboratore di giustizia amico d'infanzia di Matteo Messina Denaro.
A dare la notizia è stato il Corriere.it.
Originario di Castelvetrano, viveva da tempo in una località segreta dopo essere uscito dal programma di protezione. Da tempo soffriva di un tumore al colon, la stessa malattia del boss. "Con Messina Denaro Matteo ci conosciamo dall'infanzia perché giocavamo assieme da piccolini. Abita vicino casa mia, in linea d'aria saranno un 200 metri", aveva dichiarato in un'udienza di qualche anno addietro dopo avere cominciato a collaborare con la giustizia. Francesco Geraci, gioielliere, era conosciuto per avere nascosto gli oggetti preziosi di Totò Riina a Castelvetrano: collier, orecchini, crocifissi tempestati di brillanti, diamanti, sterline e lingotti d'oro per un valore di oltre 2 miliardi di lire. La vicinanza tra Francesco Geraci e Matteo Messina Denaro si sarebbe interrotta quando il primo aveva 15 anni: "Lui ha preso la sua strada e io la mia", disse Geraci in una dichiarazione durante il processo per la strage dei Georgofili. I due si riavvicinano quando qualcuno chiese il pizzo al gioielliere e lui si rivolse al vecchio compagno di scuola. "Da quel giorno divento un uomo di fiducia di Messina Denaro", disse Geraci al processo di Firenze.

Francesco Geraci
Anche se non era ufficialmente affiliato a Cosa Nostra, il gioielliere era tra gli uomini scelti per partecipare alla cosiddetta missione romana: Salvatore Riina aveva ordinato l'omicidio di Giovanni Falcone.
Alla fine di febbraio 1992 un gruppo di killer guidati da Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano era arrivato alla Capitale: “C’era una lista di persone da uccidere – aveva detto Geraci – Cercavamo anche Falcone che andava al Ministero. Avevamo compiti differenti io e Vincenzo Sinacori”, altro storico fedelissimo del boss di Castelvetrano. “Andammo a Palermo, con Matteo Messina Denaro, a una riunione, alla quale non mi fecero prendere parte, credo perché non contavo niente. C’erano Matteo Messina Denaro, Renzo Tinnirello, i fratelli Graviano, Enzo Sinacori, Salvatore Biondo, e lì si è deciso che si doveva andare a Roma. Nella Capitale eravamo io Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Renzo Tinnirello, Enzo Sinacori, e un’altra persona. Mi portarono a Roma perché avevo la carta di credito. E lì presi una macchina a noleggio”.
Ad un certo punto la missione romana venne annullata e Riina ordinò ai suoi di tornare in Sicilia.
Questo episodio rappresenta ancora oggi uno dei tanti misteri che orbitano attorno alla stagione stragista.
Alcune settimane dopo, Messina Denaro disse a Geraci di non andare a Palermo. Il gioielliere raccontentò di essere contrariato: “Ma come non andare? Io devo andarci ogni giorno per lavoro”. Il boss, però, ebbe una soluzione: “E allora esci ad Alcamo o a Partinico e fai la strada vecchia”. L’importante era non prendere l’autostrada. Il 23 maggio, quando salta in aria l’autostrada a Capaci, uccidendo Falcone, il boss di Castelvetrano tornò dal suo braccio destro con un mezzo sorrisino stampato in faccia: “Adesso puoi andare a Palermo”. Un racconto, quello del pentito, che è stato fondamentale nel processo a Messina Denaro per le stragi di Capaci e via d’Amelio, ancora in corso in Appello a Caltanissetta.

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