Condannati a tre anni i fiancheggiatori
Poco prima della mezzanotte e dopo una lunga camera di consiglio la Prima sezione penale della Cassazione, nell'ambito del processo 'Borgo dei Borghi' ha dichiarato definitiva la sentenza di condanna per mafia a carico di Leo Sutera, 71 anni, di Sambuca di Sicilia, ritenuto il capo mandamento di Cosa Nostra e fedelissimo del super-latitante Matteo Messina Denaro: 14 anni e sei mesi di reclusione, in primo grado erano stati inflitti 18 anni. L'accusa aveva contestato a Sutera di essere tornato operativo, nell'agosto del 2015, tre anni dopo l'ultimo arresto nell'operazione Nuova Cupola - essendo libero per avere scontato la pena - di aver ripreso a gestire attività mafiose.
Il fermo di Sutera risale al 19 ottobre 2018 ed era stato eseguito dagli agenti dello Sco e della Squadra mobile di Agrigento su richiesta del Pm della Dda di Palermo procuratore aggiunto Paolo Guido e dei sostituti procuratori Alessia Sinatra, Geri Ferrara e Claudio Camilleri.
La Corte di Appello di Palermo aveva invece ridotto la pena anche se il procuratore generale Maria Teresa Maligno aveva chiesto la condanna a vent'anni di reclusione per Sutera, producendo una documentazione finalizzata a dimostrare possibili contatti tra i Sutera e il collaboratore di giustizia Vito Bucceri, ritenuto reggente della famiglia mafiosa di Menfi.
Il procuratore generale della cassazione aveva chiesto inoltre che gli appelli dei fiancheggiatori venissero dichiarati inammissibili: la Suprema Corte ha infatti confermato la condanna a tre anni per la fioraia di Sambuca Maria Salvato, l'autista di Sutera, Vito Vaccaro e l'imprenditore Giuseppe Tabone, tutti di Sambuca e accusati di favoreggiamento.
I tre hanno scontato, in presofferto, gran parte dei tre anni e non sono sottoposti ad alcuna misura.
I difensori degli imputati sono stati gli avvocati Mauro Tirnetta per Tabone, Giacomo Frazzitta per Salvato e Giovanni Vaccaro per Vito Vaccaro. Sutera è stato difeso dagli avvocati Carlo Ferracane e Maurizio Dascola. Nel processo d'appello l’imputato aveva reso dichiarazioni spontanee, negando qualunque conoscenza diretta con il collaboratore Vito Bucceri.
I legali hanno insistito nei motivi di appello, escludendo ogni ipotesi avanzata dall'accusa e chiedendo l'annullamento della sentenza.
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