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Il procuratore generale Patti: “La missione romana per uccidere Falcone era una cosa seria che alla fine fallì

Al processo d’Appello contro il capo mafia di Castelvetrano, da 30 anni latitante, Matteo Messina Denaro, accusato e condannato in primo grado per essere stato mandante delle stragi del 1992, il procuratore generale di Caltanissetta Antonino Patti, ne ha chiesto la conferma della pena ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta. Nel corso della sua requisitoria, il procuratore generale ha parlato della nota missione romana di Cosa Nostra in cui un commando di boss avrebbe dovuto eliminare Giovanni Falcone quando lavorava nella Capitale (senza scorta), mesi prima di quel fatidico 23 maggio 1992.
Si tratta di uno dei misteri della fase preparatoria delle stragi del 1992. “Tra i motivi dell’Appello della Corte di Assise d’Appello di Catania del 2006 si dice che la missione romana fu un astuto espediente per distogliere i sospetti da Cosa nostra e far credere che fossero stati i servizi segreti deviati. Ma non è così, allora alcune cose non si sapevano ma la missione romana era una cosa seria che alla fine fallì”, ha detto Patti in aula.
La cosiddetta missione romana risale alla fine del febbraio del ’92, quando Totò Riina inviò nella capitale un ristretto gruppo di uomini d’onore guidato da Messina Denaro e Giuseppe Graviano: erano i componenti della cosiddetta Supercosa, la risposta del boss corleonese alla Superprocura, cioè la Direzione nazionale antimafia che era stata inventata da Falcone. Il magistrato poi ucciso a Capaci era l’obiettivo della missione romana, insieme a Maurizio Costanzo. “Si parla di totale superficialità e inadeguatezza di Riina nell’organizzare la missione romana e che ha fatto affidamento a persone non tutte di rilevante calabro mafioso. Ma ci aveva mandato le persone più importanti, come Giuseppe Graviano, che è un capomandamento, così come Matteo Messina Denaro - ha detto Patti - Non è affatto vero, poi, che nel sestetto romano c’era gente che non sapeva mettere mano sugli esplosivi. Riina a Falcone lo avrebbe ucciso ovunque, anche sulla Luna. Lo dice lui stesso in un’intercettazione”. Come noto, però, Falcone non venne ucciso a Roma nonostante qui, come detto, non avesse agenti di polizia a proteggerlo. Nell’arco di pochi giorni Totò Riina cambiò idea ed ordinò improvvisamente ai suoi di rientrare in Sicilia dove avevano trovato “cose più grosse”. Il pentito Gaspare Spatuzza individuò in quel cambio di strategia un passaggio fondamentale: “La genesi di tutta questa storia è quando non si uccide più Falcone a Roma con quelle modalità e si inizia quella fase terroristica mafiosa, da lì non è solo Cosa nostra”. Dopo Patti ha parlato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, che in aula, riguardo all’imputato, ha detto che “Riina per portare a termine le stragi aveva bisogno di circondarsi di fedelissimi. La strategia deliberativa ha seguito i passaggi previsti dal codice di Cosa Nostra, per cui per gli omicidi eclatanti bisognava avere il consenso degli organi provinciali, ma in realtà nessuno si sarebbe permesso di contraddire Riina che è un dittatore e solo con alcuni condivide la decisione delle stragi. Questa responsabilità Riina la condivide con Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro”.

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