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Il 19 luglio 1992, a Palermo un'autobomba esplode in via d'Amelio uccidendo il magistrato Paolo Borsellino e cinque dei sei membri della sua scorta. Sono passati solo 57 giorni dalla strage di Capaci e dalla morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e dei tre agenti della loro scorta.
Inchieste, processi e sentenze hanno messo in evidenza depistaggi e zone d'ombra. Perché fu ucciso Borsellino? Perché fu fatta sparire l'agenda rossa?
Perché una simile accelerazione per eseguire una strage così “anomala” in Cosa nostra?
È questo il quadro raccontato nelle ultime due puntate del podcast 'Mattanza', prodotto dal 'Fatto Quotidiano'.
La quinta puntata parte proprio da quel 23 maggio, vissuto dal punto di vista di Borsellino. “Quando vedo le interviste che gli sono state fatte dopo la strage di Capaci, mio fratello mi sembra un’altra persona, sembra che gli sia cambiato anche il colore degli occhi", ha raccontato Salvatore Borsellino. Chi lo ha conosciuto, infatti, ricorda che dopo l’omicidio di Falcone Borsellino cambia completamente: sorride pochissimo, è sempre più cupo, sembra persino invecchiato. E non solo perché il suo amico magistrato muore letteralmente tra le sue braccia in ospedale. “Mio fratello - ha continuato Salvatore Borsellino - continuava a dire ossessivamente: devo fare in fretta, devo fare in fretta, devo fare in fretta”.





Se Falcone aveva sempre lavorato mettendo in conto la possibilità che lo avrebbero ammazzato, dopo la strage di Capaci per Borsellino quella è una certezza. A Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo che all’epoca era un giovane magistrato, aveva detto: “A me e ad altri giovani sostituti disse che eravamo giovani e che avevamo diritto a vivere a lungo e che quindi se volevamo fare un passo indietro in quel momento, lui ci avrebbe capito. Ma la sua sorte era segnata”.
Ma perché Borsellino in quei giorni di giugno e luglio del 1992 è praticamente sicuro di essere un condannato a morte?
Salvatore Borsellino ha ricordato che in quel periodo il fratello ha un solo interesse, quello di scoprire cosa c’era dietro la strage di Capaci. E quando lui sente i collaboratori di giustizia, la prima domanda che fa è questa, lui chiede subito delle stragi. “Questo dimostra come in realtà Borsellino stesse facendo un’indagine parallela a quella della procura di Caltanissetta, perché lui aveva gli strumenti per farla, la procura di Caltanissetta in realtà non aveva questi strumenti”, ha spiegato invece Scarpinato.
Sempre sul 'Fatto' è stata pubblicata anche la sesta puntata: carne Umana.





Dopo la Strage di Via d'Amelio si verifica quello che secondo i giudici della corte d’Assise di Caltanissetta ha rappresentato il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Un depistaggio maturato sotto la gestione di Arnaldo La Barbera, l’allora capo della squadra mobile di Palermo che in passato aveva pure lui collaborato coi servizi.
Il boss Totò Riina, ai suoi fedelissimi aveva detto che uccidere Borsellino sarebbe stato, alla lunga, "un bene per tutta Cosa nostra".
Ed era stato il collaboratore di giustizia Totò Cancemi a raccontare che Riina aveva cambiato programma dopo aver incontrato persone 'che gli guidavano la manina'. Giuseppe Graviano, capomafia di Brancaccio e il superlatitante Matteo Messina Denaro conoscono i segreti delle stragi. Segreti mischiati con vecchie alleanze tra mafie e poteri esterni.

Fonte: ilfattoquotidiano.it

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