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Depositate dalla Quinta sezione penale le motivazioni della decisione dello scorso marzo

Un decreto di sequestro di documenti e dati informatici illegittimo. Così lo scorso marzo i giudici della Quinta sezione penale di Cassazione avevano annullato l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Firenze che aveva confermato i decreti di perquisizione nei confronti di Nunzia e Benedetto Graviano, sorella e fratello dei boss di Brancaccio Filippo e Giuseppe Graviano. Quel provvedimenti si inseriva nell'ambito dell'indagine della Procura di Firenze sulle stragi del '93 che ha come indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. 
Secondo la Suprema Corte, però, manca "il nesso di pertinenza tra i reati per cui si procede, il presunto finanziamento documentato dalla scrittura privata e il sequestro di documenti e dati informatici rispetto a terzi". 
Nell'operazione furono sequestrati quattro cellulari, due computer ed una pen drive eseguiti dalla Procura fiorentina in seguito alle dichiarazioni rese al pm proprio da "Madre Natura" (così lo chiamavano i suoi picciotti).
Al processo 'Ndrangheta stragista lo stesso Graviano, condannato all'ergastolo assieme al coimputato Rocco Santo Filippone, aveva raccontato che il cugino, Salvatore Graviano, era custode di una “carta privata” che proverebbe l’investimento da 20 miliardi di lire compiuto negli anni ’70 dal nonno di Graviano, Filippo Quartararo, ed altri finanziatori siciliani negli affari di Silvio Berlusconi a Milano. 
E sempre nel processo calabrese, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, aveva affermato che "c'era un imprenditore di Milano che aveva interesse che le stragi non si fermassero. Chi me lo ha detto? Me lo ha riferito nel carcere di Spoleto (tra il 2006 ed il 2007) un altro detenuto napoletano. Si evince dalle intercettazioni ma non mi chieda di dire il nome perché non farò nessun nome. Non mi sembra corretto e rispetto le confidenze che ho". 
E sugli affari di famiglia aveva raccontato quella che doveva essere la natura del rapporto tra la sua famiglia e l'imprenditore di Arcore. "Noi dobbiamo entrare, essere scritti che facciamo parte della società. Noi vogliamo essere partecipi, però questa cosa si andava procrastinando”, aveva raccontato Graviano a Reggio Calabria, facendo intendere che la condizione “occulta” dell’investimento doveva essere poi regolarizzata. “I nomi di quei soggetti non apparivano”, aveva proseguito “ma c’era una carta privata che io ho visto, la copia di mio nonno la ha mio cugino Salvatore Graviano”. 
Accuse tutte da dimostrare, che per l’avvocato di Berlusconi, Niccolò Ghedini, erano “palesemente diffamatorie”, anche se non si è poi avuta notizia di una denuncia da parte del legale dell’ex premier. 
Ora però l'accertamento della verità, con questo intervento della Cassazione, ha subito un brusco stop. 
Poco importa se Giuseppe Graviano abbia parlato a "mezza bocca" con i magistrati fiorentini, gli aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli.
Ad avviso dei difensori di Benedetta e Nunzia Graviano - che non sono indagati - "i decreti di perquisizione si fonderebbero su una 'fantasmagorica ipotesi investigativa'". Secondo la difesa, inoltre, i provvedimenti di sequestro sarebbero privi di "criteri selettivi" e "senza indicazione tra il reato contestato e i dati informatici che si intendono vincolare". La Cassazione ha ritenuto "fondato" il ricorso e osserva che occorre "evitare che il sequestro probatorio assuma una valenza meramente esplorativa di notizie di reato diverse ed ulteriori rispetto a quella per cui si procede". In pratica non si possono disporre sequestri "a strascico". 
Secondo gli ermellini il decreto, con l'obiettivo di ricercare il documento sui finanziamenti della mafia a Berlusconi, "non fornisce adeguata motivazione" quanto a "legittimità, in ragione del legame di parentela con Giuseppe Graviano, rispetto al reato per cui si procedeva (i reati di strage del biennio 1993/94) di un sequestro onnicomprensivo di tutti i dati personali contenuti in tutti gli apparecchi elettronici nella disponibilità dei terzi interessati, senza la previa indicazione, di criteri selettivi del materiale", ma anche sul "nesso di pertinenza tra i reati per cui si procede, il presunto finanziamento documentato dalla scrittura privata e il sequestro di documenti e dati informatici rispetto a terzi". 
E ancora: la Corte evidenzia mancanza di motivazione sul "rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità del sequestro a seguito del quale è stata portata alla cognizione della polizia giudiziaria per un esame preliminare (in sede di esecuzione del sequestro la polizia giudiziaria ha proceduto alla copia forense dei dati estratti da quattro telefoni cellulari, due computer e una pen drive". 
Inoltre, la Cassazione rileva che l'ordinanza impugnata "non dà conto di quale sia la specifica finalità dell'accertamento probatorio in questione e che doveva realizzarsi attraverso la perquisizione e sequestro. Del resto - sottolinea nella sentenza - lo stesso decreto di perquisizione e sequestro come predisposto dal pubblico ministero si limita genericamente ad affermare la necessità di 'accertare i rapporti tra gli indagati e il ruolo svolto dagli stessi, nonché le eventuali comunicazioni tra i medesimi e gli altri soggetti coinvolti nei fatti oggetto di indagine', facendo ricorso a espressioni chiaramente generiche e che non evidenziano in alcun modo il coinvolgimento e l'utilizzo del mezzo ablatorio nei confronti di soggetti terzi, non indagati".
"In mancanza di siffatti chiarimenti sul versante motivazionale - conclude il verdetto, come riportato dalle agenzie -, il provvedimento di perquisizione e sequestro legittima una non consentita attività esplorativa, finalizzata alla eventuale acquisizione, diretta o indiretta, di altre notizie di reato". Adesso, conclude la sentenza, il Tribunale di Firenze "dovrà tenere conto di tutti i principi richiamati, procedendo ai motivi di riesame come proposto dalla difesa dei ricorrenti".

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