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Il ruolo del reggente di Pagliarelli e la rete per sostenere i detenuti col traffico di droga

L'ennesimo arresto di Giuseppe Calvaruso - ritenuto capo del mandamento di Pagliarelli (dopo l'arresto di Settimo Mineo, suo mentore, nell'operazione Cupola 2.0 del dicembre 2018) - per quanto riguarda gli strumenti di prevenzione e contrasto alle mafie, dimostra che il 'richiamo' di Cosa Nostra è forte e le promesse di 'cambiamento', senza collaborazione effettiva, molto meno. Il nome di Calvaruso è finito più volte nelle inchieste degli inquirenti. Arrestato per la prima volta nel 2002 era rimasto in cella fino al 2006 per poi essere nuovamente arrestato nel 2008 durante il blitz Perseo che aveva svelato il primo tentativo di Cosa nostra di riorganizzare la Cupola. Alla fine il progetto per istituire la Commissione provinciale è stato stoppato, ma non il “passaggio di testimone” all'interno del mandamento di Pagliarleli.
La scarcerazione era arrivata nel 2016 e il boss si era subito trasferito in Emilia-Romagna, dove ufficialmente lavorava come collaboratore di un’azienda edile di Rimini col fine di evitare la sorveglianza speciale. Se da una parte si mostrava spregiudicato, organizzando persino una festa per il suo nuovo incarico a giugno del 2019 con tanto di pesce ed agnello fatto recapitare in carcere a Giovanni Cancemi, mafioso di spicco del mandamento, dall'altra aveva iniziato a muoversi con sempre più discrezione e attenzione.
L'arresto è stato eseguito durante l'operazione 'Brevis II' dai carabinieri del Comando provinciale (agli ordini del colonnello Andrea Massari e del maggiore Salvatore Di Gesare) nell'ambito dell'esecuzione di un provvedimento di custodia cautelare in carcere, emesso dal gip Piergiorgio Morosini su richiesta del sostituto procuratore della Dda Dario Scaletta e dell'aggiunto Salvatore De Luca, a carico di otto indagati accusati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione e trasferimento fraudolento di beni e valori, tutte aggravate dal metodo mafioso. Complessivamente gli indagati sono 17, per nove di essi il gip non ha ritenuto sussistere esigenze cautelari.
In carcere, oltre a Calvaruso sono finiti il suo braccio destro Giovanni Caruso (sia Calvaruso che Caruso sono già detenuti dopo gli arresti di aprile scorso), i due luogotenenti del clan Angelo Costa e Francesco Duecento oltre a quattro corrieri, i più attivi nel traffico di stupefacenti: Gianluca Carrotta, Giuseppe Bifano, Ciro Casino e Domenico Pangallo. Nel corso dell'attività investigativa erano già state arrestate in flagranza di reato tre persone e denunciata in stato di libertà una quarta, sequestrati circa 70 chili di droga, circa 20 mila euro in contanti e una lussuosa villa con piscina. Il blitz di questa notte arriva dopo le quattro operazioni del mese scorso che hanno disarticolato le piazze di spaccio di Palermo con 112 misure cautelari eseguite in 35 giorni dai carabinieri. Se i quattro blitz di novembre si sono concentrati sui pusher, l'operazione di questa notte ha azzerato il livello superiore, quello dei trafficanti che garantiscono l'approvvigionamento alle piazze di spaccio. E i risultati investigativi confermano come Cosa nostra abbia in mano tutto il business della droga in città, solo ad un livello più alto e remunerativo della vendita al dettaglio.

Droga "Made in Cosa Nostra"
Calvaruso ha da sempre preso molto sul serio i suoi compiti. Soprattutto quello di provvedere al sostentamento alle famiglie dei detenuti con i proventi del traffico di droga. Decine di famiglie con mariti, padri e figli affiliati alle famiglie di Pagliarelli ed ora in cella. "Che si lavori o non si lavori... i soldi ci devono essere sempre" diceva alla moglie Calvaruso. Secondo la ricostruzione degli inquirenti i boss avevano creato una rete di fornitori per garantire il continuo afflusso di stupefacente in città. Questa rete era condivisa anche con altri capi mandamento palermitani con cui non di rado in passato ci sono stati scambi di partite a seconda delle necessità. Le indagini hanno permesso di individuare tre canali principali di approvvigionamento: quello nordafricano-spagnolo, gestito dai napoletani che prelevano l'hashish a Malaga e lo portano in auto a Napoli attraversando la Francia e tutto lo stivale. Da Napoli sempre il gruppo dei corrieri napoletani curava il trasporto fino al capoluogo siciliano. Per la cocaina, invece, Calvaruso e Caruso si rifornivano direttamente dalla ‘Ndrangheta che in tutta Europa hanno il monopolio della cocaina sudamericana. Anche in questo caso a consegnare decine di chili di polvere bianca alla volta ci pensavano gli uomini della mafia calabrese.
"Si ritiene - hanno detto i Carabinieri di Palermo in una nota - in base ai gravi indizi sin qui raccolti in più procedimenti, che l'attività di vendita al dettaglio di stupefacenti sia considerata da Cosa Nostra anche un vero e proprio ammortizzatore sociale da 'concedere' alle fasce sociali delle aree cittadine più critiche, in una chiara ottica di marketing criminale volto al proselitismo mafioso".
"Nei confronti di gruppi criminali o di interi nuclei familiari - aggiungono -, pur venendo tollerata l'assai remunerativa gestione delle numerose piazze di spaccio cittadine, anche per garantire un'offerta costante che sostenga la domanda elevata di stupefacenti, l'organizzazione mafiosa mantiene, però, sempre il ferreo controllo del più lucroso flusso di approvvigionamento di stupefacente sull'Isola".
Una cosa è certa: non si ammettono affari "fuori sistema" come li chiama Giovanni Caruso. "Centocinquanta mila euro ha fatto con il fuori sistema...e poi ha fatto il meschino...non ha dato nulla il meschino" sbraitava il braccio destro del capo mandamento riferendosi ad un pusher che aveva spacciato una partita di droga presa fuori dai canali di Cosa nostra. Non sono ammessi sgarri nella vendita, ogni grammo deve arrivare dal circuito dei clan. Nei confronti di gruppi criminali o di interi nuclei familiari, viene tollerata l'assai remunerativa gestione delle numerose piazze di spaccio cittadine (anche al fine di garantire un'offerta costante che sostenga la domanda elevata di stupefacenti), ma a patto che la droga sia "made in Cosa nostra".

La villa del capo mandamento
Secondo quanto ricostruito dagli investigatori dell'Arma il reggente del mandamento mafioso di Pagliarelli avrebbe ottenuto una villa, collocata in via Altofonte, schiacciando il vero titolare con il peso dell'intimidazione mafiosa.
Nello specifico Calvaruso con la scusa di dirimere una controversia fra proprietario e inquilino, non solo ha cacciato quest'ultimo ma ha convinto il proprietario a cedergli la lussuosa villa con piscina. L'immobile ha continuato ad essere intestato al proprietario originario (indagato a piede libero), ma di fatto da anni era diventata l'abitazione principale della famiglia del capo mandamento.
La villa ora è stata sequestrata dal gip Morosini che ha emesso una misura di custodia cautelare reale.

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