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È contrario alla liberazione di Giovanni Brusca? "Col sentimento sì, col cervello dico semplicemente che è stata applicata una legge dello Stato che, come dice la signora Maria Falcone, fu voluta dal giudice morto per noi. Io dico che, ora, da libero, Brusca dovrà legittimare la sua scelta di cambiamento. Io sono cambiato, specialmente dopo la morte di mia moglie, e sono cambiato quando ho visto le vedove, le mamme e i figli di tanti morti ammazzati, sfilare sulle sedie dei testimoni al maxiprocesso. Ho sentito più volte Brusca giustificare la sua violenza con la scusa che si era in guerra. Ecco quando lui abbandonerà questo alibi e non troverà più giustificazioni a quegli orrori forse sarà davvero cambiato". Sono state queste le parole usate dal noto collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo in un’intervista rilasciata al quotidiano "La Stampa" in un articolo a firma di Francesco La Licata.
Il collaboratore di giustizia ha precisato di non conoscere abbastanza "i figli di don Bernardo Brusca, sia Giovanni che Enzo. Ci siamo incrociati per brevi periodi in carcere, nulla di più. Altro discorso vale per il padre: don Bernardo era un mafioso di altissimo livello, uno che comandava nel territorio di San Giuseppe Jato già dai tempi di Salvatore Giuliano. Una famiglia di mafia antica ma sempre legata a doppia mandata con i corleonesi di Totò Riina, dei Bagarella e di Provenzano".
E poi ancora, "Don Bernardo lo vedevo spesso - ha ricordato Mutolo - perché negli anni Settanta facevo da autista a Totò Riina e lo accompagnavo ai "Dammusi (la contrada dove abitavano i Brusca e dov'è morto Giuseppe Di Matteo vent'anni dopo n.d.r) per gli incontri fra le famiglie. Spesso si aggregavano Calogero Bagarella, fratello di Leoluca e di Antonietta, la moglie di Riina, e un boss che si chiamava Vito Cascio della famiglia di Roccamena" e infatti "mi chiedevo il perché di tanto trambusto, non capivo il via vai da e per Corleone. Lo avrei capito qualche mese dopo, davanti alle terribili immagini della strage di viale Lazio, a Palermo. Senza saperlo avevo avuto un ruolo, seppure marginalissimo, nella preparazione di quella spedizione che sarebbe andata sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo. E avrei capito anche perché Riina non mi aveva mai fatto entrare nelle stanze dove si riunivano e con grande gentilezza mi pregava di attenderlo in macchina".
Insomma, il nome di Brusca fino a quel momento non era ancora sulla bocca di tutti e solo "quando i corleonesi fanno le stragi - ha sottolineato Mutolo - dentro Cosa nostra si comincia a delineare la personalità di Giovanni Brusca. Le voci correvano, si cominciava a sapere cosa avevano raccontato i neo pentiti Di Matteo (il padre del piccolo Giuseppe n.d.r) e La Barbera. E si delineava l'importanza di Brusca nella politica stragista di Totò Riina".
L'infamia di Brusca se evince anche dal fatto che in molti cominciano a chiamarlo "u verru", il maiale, per via della sua bestialità.
Un curriculum macabro e orrifico quello di Giovanni Brusca, ed è "per questo motivo - ha raccontato Mutolo - che ci siamo molto meravigliati quando abbiamo saputo che Brusca aveva fatto richiesta di collaborare ed entrare nel programma di protezione. Mi trovavo con Masino Buscetta nella sua casa sul lago di Bracciano e commentavamo che mai gli sarebbe stato concesso di entrare nel programma di protezione. E invece la sua richiesta fu accettata. Allora abbiamo deciso di protestare, ma senza eccessivo clamore. Sapevamo di essere intercettati e ci siamo chiamati al telefono esponendo in modo abbastanza deciso i motivi del nostro dissenso, in modo che chi doveva sapere sapesse".
Il collaboratore infine ha ricordato che la cosa più importante è "comprendere appieno gli errori che si sono fatti e impegnarsi a non ripeterli".

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