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La "Sicilia e Duci" usata come "lavatrice" dei soldi sporchi della mafia palermitana

L’operazione dei carabinieri del Ros, coordinata dalla Dda di Roma, ha portato all’emissione di un’ordinanza cautelare nei confronti di 11 persone.
I reati contestati sono a vario titolo di trasferimento fraudolento di valori, bancarotta fraudolenta, autoriciclaggio e agevolazione dell’associazione mafiosa Cosa nostra.
Dalle indagini è emerso che il sodalizio criminale durante gli  anni ha riciclato, attraverso la ristorazione, ingenti somme di denaro per poi aprire locali nella zona di Testaccio e Trastevere, mettendo in piedi un vero e proprio sistema per “lavare” il denaro sporco.
L'organizzazione criminale titolare delle attività avrebbe profondamente intossicato nel tempo il tessuto economico della capitale, replicando quello che avevano già fatto in gran parte della città di Palermo, ossia aprire diversi esercizi commerciali nel settore della ristorazione e del gioco in cui far confluire il denaro, proveniente da illeciti, e successivamente 'svuotarle' in caso di necessità.

Il socio occulto del "Sicilia e Duci"
Questo era il nome del bar-pasticceria gestito dai clan palermitani di Cosa nostra.
L'attività aveva conosciuto un periodo florido soprattutto quando si era trasferita tra i vicoli di Trastevere raggiungendo un consistente volume di affari.
Ad un certo punto però i proprietari decidono di portare al completo dissesto economico la società svuotando sistematicamente le casse degli introiti giornalieri e omettendo di emettere la relativa documentazione fiscale.
La decisione è stata presa a seguito del sequestro ordinato nel 2018 dal Tribunale di Palermo, Misure di prevenzione, delle quote (pari al 18,75% dell’intero capitale sociale) di Francesco Paolo Maniscalco, identificato come il socio occulto della società.
A seguito del sequestro, inoltre, sono stati eseguiti degli approfondimenti che hanno permesso di svelare i rapporti tra Maniscalco e alcuni soggetti appartenenti alla famiglia palermitana dei Rubino i quali a loro volta intratterrebbero rapporti con soggetti riconducibili a Cosa Nostra.
Il socio occulto non è uno qualsiasi, ma è il figlio di Salvatore Paolo Maniscalco, uomo d’onore della famiglia mafiosa di Corso dei Mille. Giuseppe Marchese - nipote del boss Filippo Marchese e cognato di Leoluca Bagarella (cognato di Salvatore Riina) - ha raccontato che il suo rito di affiliazione, combinato dallo stesso Riina, venne celebrato in un villino di proprietà di Salvatore Paolo Maniscalco, situato ad Altavilla Milicia.
Ed è proprio grazie a questi rapporti di parentela che la fiducia in Maniscalco jr cresce nel tempo fino a che non viene inserito in un “bacino di comuni interessi” assieme a Giuseppe Salvatore Riina, figlio del defunto capo di Cosa Nostra, il quale poi lo 'promuove' a responsabile dell’attività estorsiva nella città di Palermo. E nel 2002, ma anche in maniera più massiva nel 2008, Maniscalco jr aveva già avviato, avvalendosi di prestanome, una serie di attività economiche nel settore della ristorazione.
Secondo gli investigatori un altro socio occulto della Sicilia e Duci S.r.l. era anche Salvatore Cillari. Quest'ultimo assieme a Maniscalco e con la complicità di un terzo soggetto palermitano, Francesco Paolo Barravecchia (legato alla famiglia mafiosa di Porta Nuova e cognato di Giuseppe Dainotti, uomo d’onore ucciso nel 2017 nel quartiere Zisa di Palermo) pianificavano operazioni commerciali come l’acquisto di considerevoli quantitativi di materiali preziosi.
Inoltre nei progetti di Scillari e Maniscalco venne coinvolto anche l’allora sorvegliato speciale Gaetano Badalamenti, storico uomo d’onore della famiglia mafiosa di Porta Nuova, il quale avrebbe dovuto finanziare occultamente parte dell’operazione. I tre si incontrano all’interno del bar Sicilia e Duci di via Mormorata.
Oltretutto Cillari ha riferito a Maniscalco le dinamiche che avevano portato all’eliminazione del reggente del mandamento di Porta Nuova Giuseppe Di Giacomo nel 2014, sempre nel quartiere la Zisa. Cillari aveva ricevuto una telefonata subito dopo l'agguato che lo aveva avvisato dell’omicidio: “Questa sera guardati il telegiornale, dice che hanno ammazzato uno alla Zisa” e poi ha condiviso l’informazione con Maniscalco assieme al quale stava viaggiando in auto. “Hanno ammazzato uno alla Zisa... o Marcello o Giuseppe”. E ancora la dimostrazione di conoscere quello che succede nel mondo di Cosa Nostra palermitana: “Vedi che c’è fermento... c’è fermento per ora, a Brancaccio vogliono ritornare i vecchi”.

La famiglia Rubino e il legame con Cesare Giuseppe Zaccheroni
I membri della famiglia Rubino avevano eletto nel 2010 la Capitale come principale bacino dei loro investimenti, aprendo delle attività soprattutto a Testaccio e poi a Trastevere, puntando sui settori della ristorazione e del gaming. “Le iniziative economiche nel settore della ristorazione che si sono succedute nel corso del tempo costituiscono, a parere di quest’ufficio, la volontà di esportare nel territorio di questa città un modello che era già stato positivamente sperimentato nel capoluogo siciliano” hanno scritto i giudici romani.
Il nucleo centrale della famiglia è composto da tre fratelli, Benedetto, Salvatore e Francesco e dalla loro sorella Rita, vedova di Cesare Giuseppe Zaccheroni - deceduto nel 1982 in un incidente stradale mentre si stava recando a Palermo per riferire ai suoi sodali di una imminente retata - membro di primo piano della famiglia mafiosa di Porta Nuova.
Il collaboratore di giustizia Calogero Ganci, parlando delle circostanze della sua morte, ha raccontato che Salvatore Cancemi gli disse: “Era morto per essere onesto”.
Infatti Cancemi e Zaccheroni erano amici e il loro legame era rafforzato dal fatto che entrambi avevano preso parte alle riunioni in cui era stato discusso l’omicidio del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. E poi ancora Marino Mannoia in un interrogatorio del 1989 rilasciato all’allora procuratore aggiunto di Palermo Giovanni Falcone disse che Cesare Giuseppe era stato membro del commando che uccise l'onorevole Pio La Torre e il suo autista Rosario di Salvo.
Oltretutto, come raccontato dal noto collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, Zaccheroni godeva della piena fiducia del "cassiere di Cosa Nostra" e capo mandamento di Porta Nuova Pippo Calò, il quale lo aveva preso come proprio punto di rifermento per i suoi affari criminali nella Capitale.
A fronte di tutto questo si comprende come i Rubino abbiano goduto nel tempo della piena fiducia dell'organizzazione Cosa Nostra, essendo appunto garantiti dall'illustre parentela di Zaccheroni e dalla personalità di Francesco Paolo Maniscalco.

La strategia della mafia economica
Il trasferimento a Roma di Benedetto Rubino e della sua famiglia fu una decisione tattica elaborata da Maniscalco al fine di creare uno strumento, appunto "La Sicilia e Duci" s.r.l, che fosse in grado di penetrare il tessuto economico della città di Roma immettendo nel circuito finanziario capitali di incerta provenienza.
“Io mi sono affidato a mio cugino Franco e a mio fratello Salvo che mi hanno portato a Roma”, ha detto in una telefonata Rubino, “in questo momento non posso scendere per un semplice motivo, perché sto seguendo un cantiere di lavori che mi stanno facendo un piccolo negozietto a livello familiare, perché io ero partito da qua, io... in poche parole ora ti faccio un breve resoconto di tutta la mia storia degli ultimi otto anni...”.
La storia comprendeva anche la creazione dell'ultima attività aperta, il bar "Da Nina" in cui vennero spesi circa 130 mila euro per la ristrutturazione dell’immobile, le forniture e i lavori.
“Il bar è completamente finito, minchia è venuto troppo carino! Troppo grazioso davvero è venuto... A poco a poco, non lo so dove andiamo... me se... finito, ci vogliono... a conti fatti, 130.000 euro. Finito! Questo è un bar, te lo dico io, di duecento e passa mila euro”, hanno detto i due fratelli Rubino, Salvatore e Benedetto nel corso di una telefonata.
Tutto sembrava andare liscio fino quando, dopo una retata a Palermo, i soci hanno cominciato a ritirarsi dalla compagine societaria di Sicilia e Duci, “i catanesi a Roma sono arrivati ma sai quanti punti vendita hanno a Roma! - ha detto uno dei due fratelli in un'intercettazione - Quelli creano business dappertutto e quindi sono stati molto più avanti di noi: quando loro hanno visto che questa cosa non andava, non funzionava si cominciano a tirare indietro, Marco Ottaviani, poi Ninni Castagna, poi ed è rimasto mio fratello solo con Franco che poi se n’è uscito pure lui, ad un certo punto gli dissi “scusate mi avete fatto smontare la famiglia, tutte cose, io qua è... Mio fratello Salvo allora ha detto “senti che facciamo, ce lo teniamo noi andiamo avanti andiamo avanti”, abbiamo cercato un altro posto che poteva essere più interessante come zona e come e abbiamo trovato questo di Trastevere. Però cos’è successo, è successo che io, il laboratorio che abbiamo creato giù perché era su due piani, io mi infilavo là sotto e Salvo si è un po’ scoraggiato nei primi mesi perché non andava benissimo, cominciò ad entrare in contrasto con la proprietaria perché non gli pagava l’affitto. Gli fece lo sfratto e quindi ci siamo trovati con il culo per terra, dopo che io avevo fatto di tutto per portarlo avanti e portarlo ad un punto tale che gli incassi erano a quasi duemila euro al giorno, un bar che ti incassa duemila euro al giorno è già veramente tantissimo”.
Infatti in un pomeriggio di aprile del 2019 si stava svolgendo una riunione in una casa in via Panfilo Castaldi tra Benedetto Rubino, la moglie e i due figli, Federica e Giuseppe.
La figlia Federica durante una conversazione registrata aveva affermato di non essere mai stata in grado di quantificare l’effettivo incasso del bar: “Il vero incasso noi non l’abbiamo mai saputo, perché chiunque ha messo alla cassa se la sono sempre appattata con lui, che molti facevano lo scontrino e molti no!”. Il riferimento è a Salvatore Rubino, lo zio, il gestore effettivo dell’attività. “A me in cassa mi ci ha messo che sono stati gli ultimi otto mesi di bar? Non subito... la cosa che mi da fastidio è questa, in una cosa dove lui mi ci aveva messo amministratore a me si è permesso di sbagliare in questo modo”.
Dopo un po' di tempo venne intercettato un altro dialogo di rilievo all'interno del bar "Da Nina" da cui è stato possibile comprendere che era stato Maniscalco a svuotare personalmente e giornalmente il denaro contenuto nella cassa del bar 'Sicilia e Duci', “è arrivato il signor Francuccio da Palermo - ha detto Federica Rubino - perché si dovevano incassare subito i soldi... lui doveva prendere i soldi”.
Salvatore Rubino inoltre, in occasione di un viaggio compiuto a Roma, aveva consegnato al fratello Benedetto 2.500 euro: “Mi sono visto con Salvo, mi ha dato i soldi. Altri 2.500, prossima settimana, fine settimana che lui sale. È troppo problematico ogni volta questo discorso dei bonifici. Ne abbiamo fatti anche fin troppi e poi non si possono giustificare”.
Infatti dal 2016 gli incassi di denaro rilevato sui conti della Sicilia e Duci subiscono un crollo verticale passando da oltre 370.000 euro a poco più di 110.000 euro.
La sottrazione sistematica delle somme di denaro era dovuta al fatto che si stava cercando di rimpiazzare la precedente attività, giudicata ormai compromessa dal sequestro da parte del Tribunale di Palermo, con la costituzione della nuova società Efferre S.r.l (costituita nel febbraio del 2018 dalla moglie e dalla figlia di Benedetto Rubino, con sede legale a Roma in via dei Vascellari 44 e avente come oggetto sociale la “ristorazione con somministrazione, attività di catering per eventi, gelaterie e pasticcerie e produzione di pasticceria fresca”) la quale poi ha inglobato anche il resto dei beni della "Sicilia e Duci".
Determinati accertamenti investigativi hanno constatato che nel luogo in cui operava la Efferre, prima aveva sede un'altra società commerciale palermitana, 'l’Impresa artigiana Pitittu S.r.l', la quale aveva come socio ed unico amministratore Silvana Pecora, cognata di Giovanni Motisi detto “u Pacchiuni”, latitante dal giungo 1993 e inserito nel cosiddetto “elenco dei 30”.
Inoltre, nella sede legale di Sicilia e Duci S.r.l. e Efferre S.r.l c'era anche una terza società, la Gierre Game S.r.l.  specializzata nel settore del gioco on line e delle scommesse, in cui confluivano gli interessi di varie famiglie mafiose di Palermo, da Brancaccio alla Noce.
Nel mondo del gioco confluivano gli interessi di varie famiglie di mafia di Palermo, da Brancaccio alla Noce. Uno su tutti Salvatore Alfano, detto “Totò”, uomo d’onore della famiglia mafiosa della Noce, la cui figura è emersa nell’ambito del procedimento “Cupola 2.0”, per via dei suoi contatti con Settimo Mineo, indicato come il nuovo capo della Commissione provinciale di Cosa nostra. È descritto così un incontro, a piazza Principe di Camporeale, tra Alfano e Settimo Mineo: “All’atto di congedarsi i due si salutano con un abbraccio ed un bacio sulla bocca”.
I centri scommesse e di gioco erano ritenuti assai redditizi per le casse dei clan e infatti Salvatore Rubino ha fatto ben tredici viaggi verso Roma in occasione dei quali ha sempre incontrato i dirigenti di alto livello della Snaitech S.p.A.
Oltretutto le indagini portate avanti dalla polizia hanno fatto emergere come Giuseppe Rubino, figlio di Benedetto, aveva dato inizio ad un’attività di distribuzione di prodotti ittici in territorio romano (soprattutto bottarga, ricci e polpa di ricci). I prodotti alimentari venivano forniti dalla famiglia mafiosa di Brancaccio, attraverso Gaetano Savoca e Pietro Tagliavia detto “Piero U pisciaiulo”. Da qui si discute della possibilità di vendere i prodotti palermitani a “Johnny” del ristorante “Assunta madre” avvalendosi del nome di Maniscalco visto che “tra Francuccio e Johnny sono buoni i rapporti”. “Johnny” è Gianni Micalusi, amico di Enrico Nicoletti, il cassiere della banda della Magliana, il quale era in stabili rapporti con persone del circuito criminale della famiglia Senese, potente clan di origine napoletana che si è insediato a Roma dagli anni ’80.

Il patrimonio dei Rubino
La famiglia disponeva di riserve di denaro che custodiva in una cassetta di sicurezza oltre che a numerosi beni di valore di provenienza delittuosa come diamanti e argenteria, dalla cui vendita ricavavano somme di denaro che poi venivano reimpiegate nell'esercizio commerciale di via Vascellari a Roma.
La moglie di Benedetto Rubino, Antonina Puleo in una conversazione intercettata, ha detto a una sua conoscente, “ma tu non lo sai Annamaria, che rimanga tra di noi. Lo sai a quanto sono arrivata di cose che mi sono venduta? Siamo arrivati già a cinquantacinquemila euro...che sono finiti. Che noi non abbiamo soldi in mano... hai capito? Abbiamo ora mille e rotti euro, perché ora questo mese abbiamo dovuto iniziare a pagare il mensile delle mura, milleottocento euro, perché mi sono venduta altri ottomila euro di cose d’oro. Stanno finendo tutte, mi sono rimaste le cose un pochettino preziose, tre anelli con tutti i brillanti, però ora questi non glieli do in mano a lui... non so dove devo andare Annamaria. Ora mi voglio vendere tutte le borse, vediamo non so più cosa mi devo vendere e a chi mi devo rivolgere... ho tanti centrotavola, ho tutta la posateria d’argento, ho il trittico, sai, la teiera, la zuccheriera, la lattiera tutta d’argento casellato, tutto casellato a mano, tutto d’argento”.
Nelle loro disponibilità vi erano anche quadri e opere d’arte. “Cose che sono state rubate ventotto anni fa”.
Tra i quadri custoditi in garage i Rubino avevano anche un dipinto realizzato dall’artista, di origine triestine, Glauco Cambon, con la raffigurazione della “Madonna col bambino”.
La sua vendita è stata presa in carico da Benedetto Rubino che ha trattato un gallerista romano di nome Gianluca Berardi, “Pronto signora”. “Si sono il marito, buonasera”. “Salve, ecco... no mi aveva... e ho parlato con il signor Cambon e... Non era molto emozionato, quindi, almeno che non ci sia un prezzo conveniente, non penso che lo prenda... per prezzo conveniente deve essere un dipinto che viene tipo mille euro... il Cambon... Glauco Cambon. “E quale sarebbe, perché in questo momento io sono un po’... “La Madonna col bambino, la Madonna col bambino... “Allora la Madonna...". Quella che sta in garage, in garage... “Ah quella che è in garage... la Madonna con il bambino mi sta dicendo che deve essere un prezzo... conveniente nel senso... “Basso. Sennò il signore non lo prende...” “Eh è basso... cosa intendono loro per basso?” “Mille euro, mille euro”.
I soldi ricavati sono poi confluiti nei lavori dell'attività commerciale, come ha detto la moglie Benedetto Rubino qualche giorno dopo nel corso di una telefonata: “Mi sono venduta un quadro per i lavori... e così c’ho mille euro”.
La provenienza dei beni di valore provenivano infatti da una rapina multimiliardaria realizzata nel 1991 - avallata da Cosa Nostra -  messa in atto da Francesco Paolo Maniscalco ai danni della Sicilcassa di Palermo, dalla quale furono sottratti circa 26 miliardi di lire in denaro contante e beni preziosi.
“Noi abbiamo avuto una parte di questa rapina - hanno raccontato il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi e Calogero Ganci - diciamo Cosa nostra ha avuto una parte”.
Infatti dopo aver realizzato la rapina, Maniscalco aveva messo a disposizione di Cosa nostra e di Totò Riina in persona una parte dei beni sottratti.
A questo si aggiungono altri fatti delittuosi come la rapina che svuotò il caveau del Monte di Pietà, sempre a Palermo (oro e gioielli per 18 miliardi di lire di cui non si è saputo più nulla) oppure  la tentata rapina nel 1987 al Banco di Sicilia di Palermo, in cui Maniscalco insieme a Francesco Picarella (affiliato anche lui a Cosa Nostra) seguirono i sopralluoghi all’interno dell’istituto di credito. Quell'episodio aveva visto la partecipazione anche di Ruggero Vernengo, uomo d’onore della famiglia di Santa Maria di Gesù, nonché cugino di Pietro Vernengo detto “U Tistuni”, esponente di vertice del mandamento di Santa Maria di Gesù.

Fonte: mensile “S” - n.130

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