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Trentotto anni. Tanto è passato da quando Gian Giacomo Ciaccio Montalto fu ucciso il 25 gennaio 1983 a Valderice. Un omicidio eccellente, caratterizzato da quel sistema di isolamento che ha visto giungere alla morte tanti magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, imprenditori, preti e membri della società civile. Le indagini sulla sua morte portarono alla luce collusioni tra il Palazzo di Giustizia trapanese e le locali cosche mafiose. Su questo stava indagando il magistrato e la conferma si ebbe con il ritrovamento di alcune bobine contenenti delle intercettazioni che permisero di ricostruire una rete di corruzione che coinvolgeva elementi della magistratura, imprenditori locali, politici, mafiosi e membri della massoneria deviata. Per il suo assassinio la Corte di Assise di Caltanissetta il 12 giugno 1998 condanno Salvatore Riina, ritenuto il mandante dell’omicidio e Mariano Agate come esecutore materiale, le condanne vennero poi successivamente confermate in Cassazione il 13 dicembre del 2001. Gian Giacomo Ciaccio Montalto nacque a Milano da genitori di origine Siciliana il 20 ottobre 1941, dopo aver trascorso l’infanzia nel capoluogo Lombardo si trasferì a Roma. Il 15 giugno 1970 superò il concorso in magistratura e giurò fedeltà alla Repubblica. Un anno dopo, presso il Tribunale di Trapani, venne immesso nelle funzioni di Sostituto Procuratore dove trovò fin da subito un clima ostile che lo ostacolerà fino al giorno della sua scomparsa. Oltre che magistrato fu anche padre di tre figlie ai quali riservava sempre attenzioni e cure senza mai fargli sentire il peso del suo lavoro. La sua metodologia di indagine fu considerata innovativa e andava in parallelo a quella del giudice Giovanni Falcone, come le procedure per il controllo delle operazioni bancarie, delle agende e delle rubriche. Inoltre si occupò di delicatissime istruttorie, come quella che portò a processo Michele Vinci, il cosiddetto mostro di Marsala responsabile del rapimento e della morte di tre bambine (7, 9 e 11 anni), quella sull’inquinamento del Golfo del Cofano, le indagini sulla mancata ricostruzione post-terremoto del Belice, della cosiddetta “costola” siciliana dello “scandalo dei petroli”, una serie di episodi di corruzione che riguardarono ministri, ex-ministri, politici locali, società petrolifere e famiglie mafiose della zona. Nel 1982 Ciaccio Montalto ordinò una quarantina di ordini di cattura per associazione mafiosa contro criminali e imprenditori del Trapanese ma furono tutti scarcerati per insufficienza di prove. A seguito di ciò il giudice ricevette minacce di morte e una croce nera venne disegnata con una bomboletta spray sulla sua Volkswagen Golf. Nonostante l’episodio lo Stato non si mosse per proteggerlo e lo lasciò solo. Quando il giudice capii di non essere più nelle condizioni di portare avanti il suo lavoro in modo sereno ed efficace posò gli occhi sulla Procura di Firenze e fece richiesta di trasferimento il 30 settembre 1982; un mese più tardi rilasciò un’intervista dove spiegò che la guerra contro i clan mafiosi sembra una “guerra privata ma in realtà è una guerra pubblica. Ma siccome siamo in pochi, pochi che ce ne possiamo occupare, pochi che abbiamo determinate conoscenze, la cosiddetta memoria storica, e privi di determinati mezzi, va a finire che le nostre conoscenze... finiscono col diventare un patrimonio personale. Questo perché non ci vengono messi a disposizione dei mezzi che sono ormai di uso comune dappertutto che noi non abbiamo. Tutto ciò finisce per individualizzare la lotta al fenomeno mafioso”. Ma l’individualizzazione si trasforma troppo spesso in isolamento che a sua volta fa da anticamera ad un destino nefasto. E così fu. Il 25 gennaio 1983 Ciaccio Montalto parcheggiò la sua automobile davanti ad una villetta in una stradina di Valderice dove risiedeva da poco tempo, mentre è in procinto di scendere viene colpito da diversi colpi di arma da fuoco. Nessuno dei residenti vicini diede l’allarme e il corpo rimase in macchina fino alle 6.30 di mattina. Per ricordare la figura di Ciaccio Montalto può essere utile ricordare le parole del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che partecipò al funerale. Il Capo dello Stato, in una riunione straordinaria fuori sede del CSM, disse: “Gli organi dello Stato devono avere ben chiara la priorità assoluta che la lotta al crimine organizzato assume ora in Italia per la sfrontatezza e la brutalità della sfida”. Parole dette 38 anni fa ma che sono attuali più che mai. Lo Stato deve realizzare che la lotta alla criminalità organizzata ha priorità assoluta e che occorre proteggere i magistrati quando sono ancora vivi e non omaggiarli con corone di fiori quando sono morti.

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