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L’intervista al magistrato che riaprì l’inchiesta sulla morte dell’infiltrato dei Carabinieri.
"Forse Ilardo firmò la condanna a morte quando disse che molti dei delitti di mafia erano voluti dallo Stato"

Oggi in Italia si è più pronti a fare i conti con certe scomode verità, le attività di indagine continuano sia pure con tutte le difficoltà legate al decorso del tempo, tuttavia, bisogna sempre distinguere la verità storica dalla verità giuridica degli eventi. Perché l’accertamento richiede, ovviamente, prove inconfutabili che potrebbero, forse, essere raggiunte solo attraverso le rivelazioni di un “pentito di Stato””. A dirlo è Pasquale Pacifico, sostituto procuratore di Caltanissetta, intervistato da La Sicilia. Tema dell’intervista, molto ampia e dettagliata, è il caso Luigi Ilardo - ex reggente di Caltanissetta poi divenuto inflitrato dei carabinieri in Cosa nostra - e tutto ciò che è ruotato intorno alla sua uccisione avvenuta a Catania il 10 maggio 1996. Il magistrato Pacifico si è occupato a fondo della vicenda. E’ stato lui infatti ad aver riaperto l’inchiesta sulla morte del confidente 10 anni fa. Oggi nonostante possa “considerarsi del tutto completa la ricostruzione dei mandanti mafiosi e degli esecutori materiali del delitto (lo scorso 1° ottobre la Corte di Cassazione ha confermato le condanne all'ergastolo per Giuseppe Madonia, Vincenzo Santapaola, in qualità di mandanti, Maurizio Zuccaro come organizzatore, ed a Orazio Benedetto Cocimano, come esecutore materiale, ndr). - restano zone d’ombra sulle fughe di notizie e le colpevoli omissioni interne alle istituzioni che questo omicidio hanno, se non determinato, quanto meno agevolato”. “Zone d’ombra”, dunque, che hanno riguardato direttamente chi era chiamato a gestire la “Fonte Oriente” (nome in codice di Luigi Ilardo). I misteri sono presenti già nel momento in cui lo Stato era chiamato a proteggere una fonte come Ilardo che era riuscito a far arrestare decine di mafiosi di primo livello. “La mancata protezione di Ilardo fu senza dubbio un gravissimo errore - ha commentato Pacifico - soprattutto in rapporto all'importanza della sua collaborazione. La giustificazione ufficiale fornita sul punto fu che Ilardo chiese ancora qualche giorno per avvisare i suoi familiari della decisione di collaborare. Tuttavia è innegabile che in quel caso non fu rispettato nessuno dei protocolli previsti per la protezione dei collaboratori di giustizia”. Lo Stato avrebbe dovuto mettere sotto protezione l’infiltrato dei carabinieri specie in quei giorni in cui si attendeva l’ufficializzazione della sua collaborazione con la giustizia che avrebbe dovuto aver luogo tre giorni dopo quel tragico 10 maggio ’96. E invece così non fu. “La gestione di Ilardo subì notevoli difficoltà per la carenza di assistenza e di mezzi”, ha aggiunto il magistrato. Si registrò inoltre “una sistematica attività di ostruzionismo”, ha affermato Pacifico, da parte dei superiori di Michele Riccio, il colonnello dei carabinieri che raccolse le confidenze di Ilardo. Contro l’ex boss nisseno venne attivata anche una pesante macchina del fango. Vennero messe in giro voci che Ilardo era coinvolto nel delitto dell’avvocato Famà e della moglie di Nitto Santapaola. Un modo per screditare l’autorevolezza del suo dichiarato probabilmente. Ad ogni modo, ha affermato Pacifico, “si trattò di un depistaggio che si mise in moto già prima dell'omicidio Ilardo allorché una nota della Dia di Caltanissetta lo indicò quale autore dell'omicidio dell'avvocato Famà”. “La Squadra Mobile di Catania, infatti, - ha continuato il sostituto procuratore sulla questione - proprio per quest'ultimo delitto, avviò una serie di attività di indagine nei confronti di Ilardo, attività che furono fatte cessare solo pochi giorni prima dell'incontro a Roma tra Ilardo ed i magistrati. Il depistaggio proseguì anche dopo il delitto tanto che solo dopo qualche anno venne fuori il vero movente dello stesso”.

I segreti inconfessabili della “Fonte Oriente”
Ma come mai questo “ostruzionismo”? Cosa avrebbe mai potuto raccontare ai magistrati Luigi Ilardo di così inconfessabile?
Pasquale Pacifico si è detto certo che la collaborazione con la giustizia di Ilardo avrebbe avuto un impatto devastante al pari “di quella di Tommaso Buscetta”. Questo perché, ha spiegato, “Ilardo era uno dei pochi soggetti a conoscere i perversi intrecci tra mafia, massoneria e pezzi deviati dello Stato”. “Basti ricordare che, in occasione dell’incontro presso i Ros di Roma (al quale l’infiltrato partecipò pochi giorni prima della sua morte insieme a Riccio, Gian Carlo Caselli, Teresa Principato e Gianni Tinebra, ndr), Ilardo dichiarò al generale Mori che avrebbe riferito che molti dei delitti commessi da Cosa nostra erano stati fatti, in realtà, per volontà dello Stato. Forse con questa affermazione firmò la sua condanna a morte”. In quell’occasione Luigi Ilardo parlò anche di Marcello Dell’Utri, ex senatore e co-fondatore di Forza Italia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. “Su questo punto il colonnello Riccio è stato chiarissimo - ha riportato a La Sicilia Pacifico - gli fu imposto dai suoi superiori di non inserire quel nominativo nel rapporto finale. E' evidente che le dichiarazioni di Ilardo su Dell’Utri potevano, all'epoca, avere una portata deflagrante, ove si consideri che nemmeno era ancora stato avviato il processo che poi porterà alla sua definitiva condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Addirittura ha raccontato il Riccio che durante il processo a Dell'Utri ci fu un tentativo di suo avvicinamento da parte dei legali dell'imputato perché non riferisse delle confidenze fattegli sul punto da Ilardo”. Eppure di queste clamorose rivelazioni non esistono registrazioni, verbali, appunti. “Questa è una delle tante anomalie riscontrate nella gestione di Ilardo, nella mia requisitoria per l'omicidio definii questo incontro con il termine di "surreale" perché non ne venne redatto alcun verbale ma vennero presi solo degli appunti dalla dottoressa Principato poi andati smarriti, né fu attivata alcuna forma di registrazione fonografica”, ha affermato. Anomalie riscontrate anche nel mancato rinvenimento nel fascicolo processuale delle fotografie che, pure, la polizia calabrese aveva scattato riguardanti gli incontri avuti da Ilardo con l’avv. Eugenio Minniti e alcuni dei più importanti esponenti di ‘Ndrangheta. “Anche in relazione all'ultimo incontro con l'avvocato Minniti - ha osservato Pacifico - intervenne l'ennesima attività di ostruzionismo da parte del generale Mario Mori che proibì al colonnello Riccio di registrare il contenuto dello stesso”.

Il mistero di “Mezzojuso”
Il sostituto procuratore di Caltanissetta ha parlato anche del famoso mancato arresto dell’allora latitante Bernardo Provenzano. I carabinieri del Ros non solo non catturarono il capo mafia che uscì allo scoperto grazie a Luigi Ilardo, ma “nessuna comunicazione ufficiale dell'imminente possibilità di arresto del Provenzano sembrerebbe fosse stata fatta dai vertici del Ros alla Procura di Palermo”, ha spiegato il pm. “Certo è che Ilardo ha incontrato anche in altra occasione Provenzano. Come accertato da una fonte confidenziale gestita dalla Squadra Mobile di Catania in epoca successiva all'omicidio, tanto che detta fonte fu pure in grado di fornire un identikit del superlatitante, rimasto anch'esso per anni lettera morta”. I principali responsabili di quella mancata cattura furono gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu che per quella vicenda vennero assolti in via definitiva per mancanza del “dolo” nonostante i giudici ermellini avessero sollevato “più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell'operato dei due.

L’accellerazione dell’omicidio e la soffiata ai boss
Ad ogni modo una delle poche certezze nel caso Ilardo è l’accelerazione dell’ordine di morte che, ha detto Pacifico, “è processualmente acquisito e consacrato nella sentenza”. Domande, invece, permangono sulla presunta soffiata che qualcuno, appartenente alle istituzioni, avrebbe fatto a Cosa nostra sulla seconda identità di Luigi Ilardo. “Il primo a parlare di fughe di notizie fu Giovanni Brusca - ha ricordato Pacifico - che utilizzò l'espressione 'è probabile che uno spiffero ci sia stato'; Brusca aveva chiesto al Provenzano istruzioni su come comportarsi con Ilardo poiché, all'interno di Cosa nostra, circolavano voci su un suo ruolo di infiltrato. La risposta del Provenzano, mediante un pizzino sequestrato all'atto dell'arresto di Brusca, arrivò, tuttavia, solo dopo l'omicidio stesso. Anche Giuffrè Antonino, seppur dopo anni, parlò di una fuga di notizie interna ad ambienti giudiziari di Caltanissetta”. Quanto alle recenti affermazioni del collaboratore Pietro Riggio, rese nel processo “trattativa”, secondo il magistrato, “vanno nella stessa direzione ed avvalorano la ricostruzione secondo cui una fuga di notizie ci fu”.

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