Sebastiano Ardita: "Per capire chi fu basta citare cosa disse di lui Giovanni Falcone"
Un tempo uomo di mafia, poi vittima, ucciso da Cosa nostra anche a causa di uno Stato che non ha saputo comprendere la rilevanza della sua "pazzia". E' la storia di Leonardo Vitale, considerato come il primo vero pentito della mafia dopo Melchiorre Allegra.
Come ricorda in un post su Facebook il consigliere togato del Csm, Sebastiano Ardita "fu considerato pazzo e forse lo era veramente perché collaborò senza alcun beneficio ne vantaggio. Ma disse solo la verità, senza essere creduto".
Vitale entrò a far parte formalmente in Cosa nostra dopo l'uccisione nel 1958 di un tale Mannino, che svolgeva il lavoro di campiere. Era quella la "prova di ammissione" che doveva superare.
Successivamente compì estorsioni ed omicidi, quindi venne arrestato nel 1972 per concorso nel sequestro del costruttore Luciano Cassina, ma fu rilasciato dopo meno di cinquanta giorni.
Durante la detenzione nel carcere dell'Asinara, manifestò segni di depressione che degenerarono nella coprofagia, inducendo i medici a sottoporlo ad elettroshock. Un'esperienza che lo segnò in maniera profonda.
Poi, la decisione di "saltare il fosso".
Il 29 marzo del 1973 Vitale si presentò alla questura di Palermo, rompendo il filo di omertà che fino a quel momento aveva contraddistinto l'organizzazione criminale.
Non solo si autoaccusò delle azioni criminale intraprese in prima persona, ma ebbe il coraggio di fare i nomi di Salvatore Riina, Giuseppe Calò, Vito Ciancimino ed altri mafiosi, collegandoli a precise circostanze.
Rivelò l'esistenza della "Commissione", l'organo a cui partecipavano i capi delle famiglie e che prendeva le decisioni più importanti e che al tempo era totalmente sconosciuto agli investigatori, descrivendo anche il rito di iniziazione di Cosa nostra e l'organizzazione di una famiglia mafiosa.
"Lo Stato - ricorda sempre Ardita - lo sottovalutò considerandolo pazzo, ma l’impianto di ciò che riferì era lo stesso che con molta più precisione racconto poi Tommaso Buscetta.
Vitale non fu creduto. Nel processo che nacque dalle sue dichiarazioni su 49 imputati furono tutti assolti, gli unici condannati furono lui e lo zio. Uscì dal carcere dopo essere stato l’unico a scontare e venne ucciso con una vendetta fredda e postuma da cosa nostra. Il 2 Dicembre 1984 una domenica mattina fu colpito alla testa con due colpi sparati da una calibro 38 mentre, assieme alla madre e alla sorella, ritornava a casa dopo aver assistito alla messa". "Per capire chi fu Vitale - conclude il magistrato - e quanto pigro e incapace fu lo Stato che non seppe accoglierne la collaborazione, basta citare cosa disse di lui Giovanni Falcone: “A differenza della giustizia dello Stato, la mafia percepì l’importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell’omertà. E’ augurabile che, almeno da morto, Vitale trovi il credito che merita”.
I collaboratori di giustizia hanno fatto sempre discutere. Ci sono stati contributi più o meno rilevanti e, purtroppo, non sono mancati anche "falsi pentiti" che hanno contribuito a sviare dalla "retta via", usati, spesso anche da uomini infedeli dello Stato, per depistare le indagini degli organi inquirenti.
Ma è altrettanto vero che se oggi si è riusciti a compiere importanti passi nella lotta a Cosa nostra e nella ricerca della verità sulle stragi è proprio grazie all'apporto dei collaboratori di giustizia.
Certo, vanno ricercati i riscontri, vanno verificate tutte le dichiarazioni senza essere superficiali. Ma non dobbiamo commettere il medesimo errore di un tempo.
Ricordare i "pazzi" come Vitale e quella sua scelta coraggiosa dovrebbe farci riflettere, una volta più che mai, sull'importanza che ancora oggi, hanno avuto, ed anno, i collaboratori di giustizia.
Del resto non è un caso se Cosa nostra, proprio ai tempi delle bombe degli anni Novanta, inserì tra i punti del famigerato papello la richiesta di una "riforma della legge sui pentiti".