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di AMDuemila
Prosegue la requisitoria del pm Paci nel processo contro il super latitante di Castelvetrano

"Matteo Messina Denaro è uno yes-man, non è mai venuto alla ribalta per una contrapposizione con quelli che contavano", ma "con le stragi del 1993 vengono allo scoperto le riserve" delle vecchie famiglie contro gli attentati in Sicilia. A dirlo è il pm Gabriele Paci durante la requisitoria del processo contro il superlatitante di Castelvetrano accusato di essere mandante delle stragi del ’92. Il magistrato, riferendosi agli attentati di Firenze, Roma e Milano per cui Matteo Messina Denaro è già stato condannato all'ergastolo, ha affermato davanti alla corte d’Assise di Caltanissetta che “quelle bombe al nord furono il logico sviluppo della strategia stragista iniziata nell'autunno del novantuno e articolata in riunioni e intimidazioni intermedie”.
"Portare le bombe fuori dalla Sicilia fu una conseguenza del teorema Buscetta, ma anche di una condivisione della commissione regionale più formale che reale", ha aggiunto Paci: "Vinse l'aspetto farisaico, chi vuole il prosieguo delle stragi, non le vuole a casa propria". Per fare gli attentati al Nord "non c'era bisogno di autorizzazioni, mentre in Sicilia avevano dovuto raccogliere le adesioni 'forzate' di tutte le famiglie siciliane. Dopo le stragi del '92 tutto lo stato maggiore di Cosa Nostra passò la latitanza nel Trapanese, dove c’è la sicurezza che nessuno li vede: sia per l'assistenza degli uomini d'onore che per la mancanza di contaminazione di pastori che ti vendono per quattro denari". E in effetti Giovanni Brusca trascorse la latitanza tra Castellammare del Golfo e Valderice, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano si rifugiarono a Castelvetrano, nella frazione di Triscina, mentre Totò Riina e Leoluca Bagarella passarono i mesi successivi a Mazara del Vallo, come testimoniato da alcune fotografie in cui i due vennero immortalati durante un bagno nel mazarese. "Dopo le bombe del 1993 arrivò un momento in cui capirono che da sole potevano rivelarsi inefficaci, anche perché il numero dei collaboratori di giustizia stava crescendo e non era un segnale di resa dello Stato, nel '92 con Borsellino iniziano a collaborare Leonardo Messina e Gaspare Mutolo, poi dopo il 19 luglio fu il momento di Giuseppe 'Pino' Marchese, poi Giovanni Drago (uomo di Brancaccio) e nel corso del '93 continuò questa diaspora, con Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera, così si iniziò a pensare all'idea politica di Sicilia Libera".

Il no alle bombe a Selinunte
Se da un lato, quando si parlava di piazzare bombe in continente Matteo Messina Denaro acconsentiva senza remore alcune, dall’altro invece, quando si pensò di attuare lo stesso piano in Sicilia e in particolare nei templi di Selinunte, situati nella sua città natale, Castelvetrano, il capo mafia si oppose. “Questi sono pazzi”, disse. Questa esclamazione è stata ripetuta in aula dal pm Paci riportando quelle che sono state le parole del collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori. “Selinunte è a Castelvetrano e tutti volevano fare gli attentati, ma nessuno lo voleva fare a casa propria. Era in auge il teorema Buscetta - ha aggiunto Paci - e fare l'attentato sul proprio territorio sarebbe servito a fermare la Strage, in questo caso da parte di Messina Denaro". Poi, il 27 maggio 1993, la strage dei Georgofili, per la quale Messina Denaro fu condannato all'ergastolo. Secondo quanto riferito dal pm, "ci sono almeno due punti che collegano il contatto di Bellini e Gioè a Messina Denaro. Il primo è il riferimento alla massoneria trapanese, "se c’è qualche problema noi possiamo fare intervenire i massoni trapanesi". Il secondo è la trattativa sulle opere d'arte trafugate in Sicilia, che Gioè segnalò a Bellini, e i collaboratori riferiscono che il padre di Matteo, don Ciccio Messina Denaro, da tempo trafficava con le opere d'arte".

Lo “schiaffo” a Borsellino
Durante la requisitoria il pm Grabiele Paci ha riportato anche una vicenda inerente il giudice Paolo Borsellino, la cui scomparsa verrà ricordata tra qualche giorno, il 19 luglio, 28 anni dalla strage di via d’Amelio. La questione, che rende bene l’idea del clima di isolamento e delegittimazione che attorniava il giudice, riguarda la richiesta del divieto di soggiorno per il capo mafia Francesco Messina Denaro, don Ciccio, padre del super latitante Matteo. Una richiesta, quella di Borsellino, rigettata dal tribunale di Trapani il 13 luglio 1990 con un decreto di “non luogo a procedere” che “è una sorta di schiaffo a chi l'aveva avanzata”, ha detto Paci in aula depositando il documento. Erano gli anni in cui Messina Denaro senior "uscì fuori dai radar, dicendo che aveva una brutta malattia e mandando avanti il figlio Matteo che partecipò alle riunioni decisive per le Stragi del 92". Quest'ultimo dall'agosto dell'86 al marzo 1992 era stato a capo della Procura di Marsala e il 23 gennaio 1990 aveva chiesto la sorveglianza speciale, il divieto di dimora e il sequestro di tutti i beni di don Ciccio. Ad ottobre dello stesso anno Borsellino - con le stesse accuse - emise un ordine di cattura nei confronti del capomafia che da allora iniziò la sua latitanza, condannato da ricercato nel 1992 e morto da ricercato nel 1998. "Rileggendo quel decreto potete apprezzare qual era lo stato dell'arte, qual era lo stato delle indagini fatto da valorosissimi inquirenti", ha continuato il magistrato e "si fa anche dell'ironia nel provvedimento, si dice: alla fine che ha fatto questo?". Nel decreto (presidente G. Barraco, giudici Massimo Palmeri e Tommaso Miranda) scrivono che "non risulta a carico del proposto dal 1964 ad oggi alcun precedente penale". 
Sul finire degli anni cinquanta Messina Denaro senior - già allora campiere dei D'Alì - fu indagato per il sequestro-omicidio del notaio Francesco Craparotta e di un tale Vito Bonanno, uccisi il 9 gennaio 1957. I carabinieri di Castelvetrano lo ascoltarono il 16 maggio di quell'anno, ma nel 1964 venne scagionato da ogni accusa. "Le notizie relative agli asseriti rapporti del proposto con appartenenti a consorterie mafiose - continua il decreto del Tribunale di Trapani del luglio novantaInoltre - si sono rivelate per alcuni versi, stando agli elementi di fatto forniti, incontrollabili (non vi è alcun elemento agli atti che indichi Giuseppe Garamella, Paolo Marotta, Vito Guarrasi e Saverio Furnari quali affiliati alle cosche mafiose) e peraltro non certamente all'origine della presunta pericolosità qualificata (la figlia Rosalia ha contratto matrimonio con Guttadauro Filippo, sulla cui trasparente personalità non si solleva alcuna ombra di dubbio se non purtroppo, che è fratello di tale Guttadauro Giuseppe, ex diffidato e sorvegliato speciale, indiziato di mafia)". Filippo Guttadauro, arrestato una prima volta nel 1994 dopo quelle parole assolutorie e poi nel 2006, è oggi detenuto al 41bis. "Alla fine della fiera è una sorta di schiaffo a chi aveva avanzato questa richiesta, per dire 'non lo vedi che non c'è nulla'", ha detto il pm Paci, nel corso della requisitoria. Tutti i nominativi citati poi furono condannati per mafia, meno che Guarrasi, mente occulta della politica e dell'economia siciliana dal secondo dopoguerra. Nel documento si elencano anche i rapporti con la blasonata famiglia trapanese dei D'Ali'. "L'unica operazione che ha richiesto l'impiego di una consistente somma di Denaro per l'acquisto di un fondo facente parte delle proprietà fondiarie dei D'Alì, risulta onorata con un mutuo - si legge nel provvedimento - contratto presso la Banca di Sicilia e di cui il Messina Denaro e la moglie risultano ancora gravati". "Gli accertamenti bancari hanno consentito di verificare che l'odierno proposto risulta avere una situazione debitoria per svariati milioni (oltre 18 milioni per il mutuo soprannominato) e di non essere in possesso di altra liquidità economica", continua il decreto. Per anni "l'attenzione si focalizzò su Mariano Agate, indicato erroneamente come capo della provincia di Trapani, trascurando la figura di don Ciccio Messina Denaro - ha aggiunto Paci - riportata da validi investigatori come Rino Germanà (sfuggito a un agguato sul lungomare di Mazara nel settembre 1992 ndr), che per dieci anni fu non solo il capo del mandamento di Castelvetrano, ma anche di tutta la mafia trapanese", ha detto il pm Paci. Un'eredità raccolta dal figlio Matteo che, dopo aver condotto le faide di Alcamo e Partanna, nell'autunno 1991 affiancò Totò Riina, partecipando alla missione romana del febbraio-marzo novantadue per uccidere Falcone nella capitale e seguendolo fino alle Stragi del 92. Proseguendo con quelle al nord del 1993, di Firenze e Milano, per cui è già stato condannato all'ergastolo.

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