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di Aaron Pettinari
In un rapporto della Dia, depositato agli atti del processo d'appello sulla strage di Capaci che vede imputati i boss Salvo Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro e Lorenzo Tinnirello (condannati in primo grado all'ergastolo mentre un quinto, Vittorio Tutino, venne assolto per 'non aver commesso il fatto'), si ricostruiscono alcuni misteriosi contatti avvenuti 28 anni fa, due ore e 41 minuti prima dell'esplosione che sventrò un'autostrada intera. Salvo Palazzolo, sul quotidiano La Repubblica, spiega come uno degli attentatori del giudice Giovanni Falcone chiamò dal suo telefonino (clonato) un numero americano, in Minnesota.
Un elemento che era già noto nei processi. Così la Procura di Caltanissetta ha continuato ad indagare su quell’utenza, 00161277746990, che risultava inesistente. Gli investigatori della Dia, però, avrebbero trovato una nuova traccia.
Nel rapporto, scrive Repubblica, viene indicato un indirizzo: 2585 Ivy Avenue East, Maplewood, Minnesota. E anche il numero dell’appartamento del residence in cui era installata l’utenza, il 315. Guardando i tabulati era emersa una strana discrasia. Da una parte il sistema aveva segnato uno zero alla fine. In un altro tabulato, invece, lo zero non c’era. Da questo elemento è ripartita l'indagine.

Le parole di Avola
Lo scorso novembre, nel processo Capaci bis, è stato sentito il collaboratore di giustizia catanese, Maurizio Avola, che da qualche mese è tornato a parlare delle stragi con rivelazioni nuove anche sulla morte del giudice Scopelliti. Avola ha riferito di un soggetto americano, esperto di esplosivi, che sarebbe stato mandato in Sicilia dal capo della famiglia Gambino di New York, John Gotti.
"Nel '92 ho conosciuto un esperto di esplosivi a casa di Aldo Ercolano (capomafia catanese ndr) che mi disse: 'oggi hai conosciuto uno importante' - ha raccontato il pentito - Era poco più alto di 1.80, robusto, capelli scuri. Vestiva elegante. Mi dicevano che era venuto per dirci come si preparava un esplosivo. Aveva la parlata tipica dell'italo americano. Mi fu presentato come appartenente alla famiglia mafiosa americana di John Gotti. Ci disse come funzionava questo esplosivo potentissimo, come piazzarlo, come ottenere le frequenze giuste e l'utilizzo del detonatore. Mi fu presentato perché doveva partecipare alla strage di Capaci".

L'America e le stragi
Gli interrogativi che si aprono sono molteplici volgendo lo sguardo agli Stat Uniti. Tra Cosa nostra Sicilia e quella Usa c'è sempre stato un legame importante non solo per gli affari o il traffico di stupefacenti. Come racconta Palazzolo "negli archivi del palazzo di giustizia di Palermo c’è un’altra telefonata" insolita e che giunge proprio fino all'altro lato dell'Oceano. Il 30 luglio 1983, infatti, l'Fbi intercettò negli Stati Uniti il boss Gino Mineo al telefono con un misterioso interlocutore a Palermo. Veniva informato che 'hanno messo Tnt nella macchina, lui è morto'. A chi si riferivano? Al consigliere istruttore Rocco Chinnici, ucciso il giorno prima assieme ai due carabinieri della scorta e il portiere dello stabile.

Gioé, Bellini e la triangolazione americana
Un altro elemento è stato raccontato da un uomo dai mille volti, Paolo Bellini, ex primula nera di Avanguardia Nazionale oggi indagato per la strage di Bologna. In questi anni ha deposto al processo Stato-mafia, a Caltanissetta e a Reggio Calabria parlando di una "seconda trattativa" che non si riferiva a quella delle opere d'arte, che lo vedeva direttamente coinvolto con il boss Antonino Gioé, ma ad una sorta di "triangolazione tra la mafia, gli Stati Uniti e i piani alti del governo italiano”.
"Gioè mi raccontava di Capaci - aveva detto Bellini - e ripeteva: 'Ci hanno consumati', 'Ci hanno usati'. E poi mi spiegò che Riina aveva un ulteriore canale di trattativa, con lo scopo di ottenere benefici per l’organizzazione mafiosa. Era una trattativa triangolare fra l’Italia e gli Stati Uniti d’America, nel senso che Cosa nostra aveva dei tramiti negli Stati Uniti per una trattativa da condurre in porto con ambienti italiani che Gioè non mi disse'. Svelò soltanto che i 'tramiti negli Stati Uniti' erano in contatto con alcuni 'parenti americani di Totò Riina'".
Purtroppo l'unico che avrebbe potuto offrire un contributo decisivo per dipanare i dubbi è proprio Antonino Gioé che, la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993, fu trovato impiccato con i lacci delle scarpe nella cella in cui trascorreva la detenzione nel carcere di Rebibbia. Caso vuole che erano trascorse appena poche ore dalle bombe delle stragi di via Palestro a Milano e delle due basiliche di Roma. Le indagini ufficiali hanno bollato il fatto come un suicidio, ma i dubbi sono molteplici.
Gioé aveva scritto una lettera molto strana in cui si fa riferimento anche ai servizi segreti, scagionando da alcune accuse anche boss come Domenico Papalia, parlando di 'fandonie e millanterie' che sarebbero state registrate in alcune conversazioni telefoniche dagli organi inquirenti. Alcuni collaboratori di giustizia dicono che Gioè, forse, poteva iniziare a collaborare. Altri raccontano che poco prima di quel "suicidio", stranamente è stata chiusa la porta che dava accesso al corridoio di Gioè e che molti capiranno che stava per accadere qualcosa di strano.
Misteri su misteri.

Il telefonino di Gioé
Sul telefonino clonato di Gioé gli investigatori della Dia, secondo quanto riportato da La Repubblica, sarebbero tornati a cercare delle tracce. Era un "Nec P 300" agganciato a un’utenza che risultava disattivata da mesi. Quella dell’imprenditore Andrea Di Matteo, parente di uno degli stragisti di Falcone. Il numero, lo 0337/893266, fu attivato il 19 marzo 1991 e il 15 aprile 1992 l’intestatario presentò una denuncia di furto dell’apparecchio. Nel giro di sei giorni l'utenza fu disattivata, ma non completamente. Perché quel telefono continuò a funzionare fino all'ottobre di quell'anno.

Foto © Shobha

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