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francese mariodi Davide de Bari
A quarant’anni dall’omicidio l’esempio del giornalista è vivo più che mai

Mario Francese era un giornalista che con il suo impegno civile non ha fatto altro che scrivere la verità, affinché tutti potessero prendere consapevolezza sulla realtà della Sicilia e dell’Italia. Era coraggioso nello scrivere quello che non doveva essere raccontato, come facevano pochi giornalisti dell’epoca. Mario Francese è morto perché ha detto ciò che non doveva dire, - disse la pm Laura Vaccaro durante la requisitoria del processo - secondo l'ordine stabilito da Cosa nostra, e ha scritto ciò che per i mafiosi non doveva essere scritto e portato alla coscienza di tutti”.
Ancora adolescente, Francese si trasferì da Siracusa a Palermo. Dopo l’Università, il ragazzo sentiva dentro di sé una forte passione: raccontare le storie della sua città. Così iniziò a lavorare come telescrivista all’Ansa, ma l’ambizione lo portò a scrivere di cronaca nera su “La Sicilia”. Nel 1960 nella vita dell’aspirante giornalista arrivò la svolta: fu assunto dal “Giornale di Sicilia” come cronista di nera e giudiziaria. Si occupò subito di mafia, dalla strage di viale Lazio a quella di Ciaculli.
Francese individuò una mafia, che non operava più nel latifondo, ma contava sull’appoggio della classe politica e grazie a questo stava facendo il salto di qualità.
Addirittura, Francese in quegli anni riuscì a raccogliere le dichiarazioni di Ninetta Bagarella che nei confronti del suo fidanzato, Totò Riina, diceva: “Che male c’è ad amare Totò Riina? Lo ritengo innocente”.
Il giornalista cominciò a occuparsi del rapporto mafia-appalti. Grazie alle informazioni del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, Francese investigò sugli appalti della ricostruzione della valle del Belice, in particolare della diga Garcia, un’opera che non è mai stata completata e per la quale furono stanziati una “ballata di miliardi”. Nell’agosto del 1977, il colonnello Russo fu assassinato, questo non fermò la penna del giornalista palermitano, che a settembre dello stesso anno sul “Giornale di Sicilia” pubblicò un’inchiesta in sei puntate riguardante gli appalti della diga Garcia. Francese capì che i due eventi erano collegati. E il 19 ottobre 1978 scrisse: “Russo ucciso per ordine dei corleonesi. Richiesto forse un mandato di cattura per Leoluca Bagarella. L’eliminazione del colonnello sarebbe stata decisa per le indagini sui subappalti della diga Garcia”. Poco dopo, il caporedattore Lucio Galluzzo subì un attentato a danno della sua abitazione e anche il direttore Lino Rizzi ritrovò la sua auto danneggiata. Galluzzo poi decise di lasciare il giornale. Nel frattempo, Francese stava scrivendo un altro dossier sul rapporto mafia-appalti, ma non fece a tempo a essere pubblicato che il 26 gennaio 1979 il giornalista fu assassinato dai killer di Cosa nostra.

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Mario Francese e Ninetta Bagarella nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Palermo


La ricerca della verità
Dopo la morte del giornalista, le indagini non portarono a capire chi fossero stati i mandanti e gli esecutori del delitto. Per ben vent’anni la storia di Francese cadde nel dimenticatoio. Grazie al collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo si ebbe una svolta: raccontò ai magistrati che il giornalista era stato ucciso da Cosa nostra perché i suoi articoli davano fastidio. Era poco per la procura che decise di non riaprire il caso. Un giorno al “Giornale di Sicilia” a Giulio Francese arrivò una lettera rivolta a tutta la famiglia, firmata da Domenico Di Marco, un mafioso da “quattro soldi” che secondo i magistrati era poco attendibile. Le dichiarazioni del pentito non avevano alcun riscontro, però spinsero la famiglia Francese a chiedere giustizia. Il 1994 Giulio fu ricevuto dai magistrati Gian Carlo Caselli e Enza Sabatino che gli suggerirono di raccogliere articoli, documenti e materiali che confermassero le dichiarazioni di Di Marco. Giuseppe, figlio più piccolo di Mario, decise di passare a setaccio tutti gli articoli scritti da suo padre e iniziò a ricostruire l’attività giornalistica investigativa. Il suo obbiettivo era di trovare dei collegamenti tra gli appalti della diga Garcia, l’omicidio Russo e gli attentati al caporedattore e direttore del giornale di quel tempo. Tra il lavoro fatto da Giuseppe e Giulio e i pentiti, che arrivarono in un secondo momento, il Gip Florestano Cristodaro accolse la proposta della pm Laura Vaccaro di riaprire il caso Francese, rinviando a giudizio l’intera cupola di Cosa nostra. Alla sbarra Salvatore Riina, Francesco Madonia, Michele Greco, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Matteo Motisi, Pippo Calò e imputati per essere stati i mandanti Leoluca Bagarella e Giuseppe Madonia. Nella sua requisitoria la pm Vaccaro ricostruì il contesto in cui Francese lavorava, evidenziando anche l'isolamento all’interno del giornale. “Si muore quando si è soli - disse il magistrato - Quella solitudine che indusse Galluzzo a lasciare prima dell’irreparabile, uccise Mario Francese”. E poi ancora: “Ce lo dicevano i fatti, ce lo diceva la vita di Mario Francese, ce lo dicevano soprattutto i suoi scritti, che la chiave di lettura andava cercata nel suo impegno professionale, nella sua tenacia nel ricercare la verità e comunicarla attraverso le pagine di un Giornale all'epoca non coraggioso come il suo cronista; ce lo dicevano questi fatti, che la morte di Mario Francese era stata opera di quelli che, sul finire degli anni ‘70, erano i veri 'padroni' delle nostre città, della nostra terra, di questa città. Ma non avevamo prove per fare di tutto ciò un processo, non avevamo elementi per richiedere una affermazione di verità giudiziaria”.
L'11 aprile del 2001 arrivarono le condanne a 30 anni per tutti gli imputati. Nel secondo grado di giudizio, la Corte d’Appello di Palermo il 13 dicembre 2002 confermò tutte le condanne di primo grado. Ma poi in Cassazione, i boss Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella furono assolti “per non avere commesso il fatto”, per il resto furono avvallate le condanne a 30 anni.
Il 3 settembre 2002, Giuseppe Francese decise di suicidarsi, anche se a questa tragedia sopravvive l’opera straordinaria di un figlio che è diventato giornalista per rendere giustizia a suo padre.

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