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atria rita 850Dopo 26 anni il suo coraggio vive ancora
di Davide de Bari
Il 26 luglio 1992, Rita Atria era disperata e non trovava pace per ciò che era accaduto una settimana prima in via d'Amelio a Palermo. “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita - scrisse Rita in una pagina di diario - Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi. Ma io senza di te sono morta”. La sua fu una vita dura, difficile da sostenere per una ragazza di soli 17 anni. E con la morte di Paolo Borsellino, che l’aveva aiutata e presa sotto il suo mantello protettivo, non riuscì ad andare avanti. Così decise di mettere la parola fine alla sua storia e si gettò dal balcone della sua nuova casa, a Roma in via Amelia 23, dove avrebbe potuto costruire un nuovo futuro. All’arrivo dei soccorsi non ci fu nulla da fare.

Una vita di violenze
Rita nacque a Partanna, piccolo comune del Belice nel trapanese. Era figlia di un boss di quartiere, don Vito Atria, che aveva buoni rapporti con tutti quelli che contavano. Il 18 novembre 1985, la ragazza si scontrò con la violenza mafiosa nel momento in cui uccisero suo padre, troppo “antico” per comprendere il business del narcotraffico. Da quel momento l’unico pensiero di Rita e del fratello Nicola fu quello di vendicare il loro padre. Vendetta che però portò Nicola incontro alla morte, mentre lavorava nella pizzeria di un amico, di fronte agli occhi della moglie Piera Aiello (oggi deputata del M5S che si batte per ottenere maggiori tutele per i testimoni di giustizia, ndr). Non solo il padre, ma anche il fratello era stato portato via a Rita dalla mafia. Così, a quel punto, la giovane di Partanna diede una svolta alla propria vita: seguendo le orme della cognata Piera che già iniziò a collaborare con i magistrati di Marsala, dopo la morte del marito. La ragazza iniziò a deporre come un fiume in piena, fornendo informazioni più dettagliate, essendo a conoscenza di molte più cose rispetto a Piera. La madre la ripudiò e prima ancora le disse: “Rita, non t’immischiare, non fare fesserie”. Non era la sola, perché qualcuno intenzionalmente la definì “femmina lingua longa e amica degli sbirri”. In questa realtà di conflitti e solitudine, Rita si legò, come se fosse un padre, a Paolo Borsellino, al tempo procuratore della Repubblica di Marsala. Il giudice prese sotto la sua protezione la ragazza che passò del tempo insieme a lui e alla moglie, come se fossero una famiglia. La “picciridda” di Partanna, entrata nel programma di protezione testimoni, andò a vivere in località protetta con la cognata. Dopo la strage di via D’Amelio, Rita cadde in un profondo stato di prostrazione che la portò a compiere l’estremo gesto, avendo perso il suo punto di riferimento.

Dopo la morte
Al funerale non andò nessuno di tutto il paese, nemmeno sua madre, che qualche mese più tardi si armò di martello e fece a brandelli la lapide di sua figlia. Non restò nulla della foto e della frase “La verità vive” sulla lapide, come non doveva restare nulla di quella figlia che aveva riferito quello che non andava raccontato. Non bastava la morte, bisognava rimarcare il rifiuto per quella “figlia sbagliata” che aveva “disonorato la famiglia Atria” collaborando con i magistrati. Nell’udienza di un processo a numerosi componenti della mafia di Partanna, un pentito rivelò poi che la notizia del suicidio di Rita fu accolta nel carcere di Trapani con un lungo applauso. L’unico modo per poter svilire questi gesti è la memoria. E infatti, anche quest’anno, Rita sarà ricordata dall'associazione che prende il suo nome, affinché il suo coraggio e la sua lotta nel denunciare la mafia possa continuare ad andare avanti e ispirare quanti oggi hanno paura a denunciare o chi addirittura preferisce essere compiacente. La storia di Rita ci insegna che anche se si è soli nel combattere la mafia, si può trovare l’aiuto necessario per poterla sconfiggere.

ANTIMAFIADuemila
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