di Rino Giacalone
Corte di Assise di Appello, la requisitoria contro gli imputati Vincenzo Virga e Vito Mazzara, chiesta la conferma della condanna di primo grado
“Finalmente i trapanisi si livaro di mezzo sta camurria”. La frase (finalmentre i trapanesi hanno eliminato una persona fastidiosa), secondo il racconto di Giovanni Brusca, ex boss di San Giuseppe Jato, è stata pronunciata dal capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina, alla notizia dell’uccisione di Mauro Rostagno. Un delitto che risale al 26 settembre del 1988.
Rostagno, sociologo e giornalista, si occupava del recupero dei tossicodipendenti con la comunità Saman e nel frattempo, come ha ricordato la figlia Maddalena, si occupava, facendo il giornalista nella tv privata Rtc di Trapani, di fare da “terapeuta” ad un territorio molto incline a stare dalla parte dei poteri forti. Dopo quella frase, “Rostagno era una camurria”, Brusca, sentito nel processo di primo grado, ha detto che non aveva altro motivo di chiedere di più su quel delitto: l’omicidio, per le parole usate dal capo dei capi, “chiaramente era di Cosa nostra”. E nel giorno della morte del sanguinario boss corleonese, a Palermo, in Corte di Assise di Appello, presidente Matteo Frasca e a latere Roberto Murgia, i pg Umberto De Giglio e Domenico Gozzo hanno esposto la requisitoria, a conclusione della quale hanno chiesto la conferma delle condanne all’ergastolo per gli imputati Vincenzo Virga, capo della cosca trapanese, e Vito Mazzara, il killer di fiducia della mafia trapanese.
Alla requisitoria si è giunti dopo diverse udienze, dedicate ad approfondire l’aspetto processuale legato alla perizia genetica che ha “trovato” la firma della mafia su quei pezzi di legno, ritrovati la sera del 26 settembre del 1988 sul luogo del delitto, a Lenzi, a pochi metri dall’ingresso della comunità Saman, nelle campagne di Valderice. Su quei legni che coprivano le canne del fucile usato per uccidere Mauro Rostagno, e che al momento dell’esplosione si staccarono finendo per terra, i periti della Corte di Assise di Trapani, Paola De Simone, Elena Carra e Silvano Presciuttini, hanno trovato le tracce genetiche riconducibili all’imputato Vito Mazzara e anche quelle “riconducibili per caratteristica” ad un parente dello stesso Mazzara. Due firme “genetiche” che hanno incastrato Mazzara.
Le difese degli imputati avevano chiesto di riaprire l’istruttoria dibattimentale. L’obiettivo era proprio quello di rifare daccapo la perizia genetica, cioè quella sul Dna, per i giudici che hanno richiamato in aula i periti di primo grado, ed hanno ascoltato anche i consulenti delle difese, e tra questi l’ex comandante del Ris, generale Luciano Garofano, che ha deposto a favore di Mazzara. Ma la Corte di Assise di Appello ha ritenuto di non accogliere, anche dopo avere sentito i periti, la richiesta delle difese dei due imputati Virga e Mazzara. E quindi oggi il processo d’appello per il delitto Rostagno è entrato nella fase della discussione, con l’intervento dei due sostituti della procura generale De Giglio e Gozzo.
Hanno parlato per oltre quattro ore, sviscerando il dibattimento in ogni sua parte. Hanno fornito ai giudici le prove che sanciscono l’assoluto valore della perizia genetica, indicando come un “bluff” quello tentato dal consulente ex generale dei Carabinieri Luciano Garofano, ma hanno anche parecchio parlato di altre “firme” della mafia che sono state trovate a riprova della matrice mafiosa del delitto.
E se per le difese nei ricorsi la presenza dei “depistaggi”, ampiamente indicati nelle motivazioni delle due condanne in primo grado, sono stati inseriti in uno scenario che porterebbe ad escludere le responsabilità mafiose per l’omicidio di Mauro Rostagno, i pg Gozzo e De Giglio, ma sopratutto il primo, hanno spiegato ai giudici di appello che i “depistaggi” sono altresì caratteristica propria del movente mafioso. Gozzo, in particolare, ha ricordato decine di omicidi ordinati da Cosa nostra successivamente ai quali il “depistaggio” è puntualmente comparso, assieme al “mascariamento” della memoria della vittima, così da allontanare dalla mafia ogni responsabilità.
Nel delitto di Mauro Rostagno ci sono depistaggi e mascariamenti. Ma anche tanto altro che ha portato i pg a sostenere la colpa di Cosa nostra in quel delitto. Rostagno è stato ucciso perché si era avvicinato moltissimo agli affari mafiosi, tra droga, politica, massoneria e appalti, in quegli anni in cui a Trapani addirittura si sosteneva l’inesistenza della mafia. La sua voce era diventata “una camurria” come diceva Totò Riina e come sosteneva un altro potente mafioso, il patriarca della mafia belicina Francesco Messina Denaro.
Mauro Rostagno era entrato in possesso di una mappa dove comune per comune, città per città, quartiere per quartiere, erano segnati i nomi dei mafiosi. Aveva anche scritto il nome di Totò Minore, autorevole capo mafia trapanese, nome però che sui suoi stessi appunti era stato poi sbarrato, come tagliato. Quando Rostagno scrisse quell’appunto Totò Minore era già morto da cinque anni, ma nessuno ancora lo sapeva, la circostanza fu appurata solo nei primi anni ’90. Rostagno forse aveva saputo qualcosa e perciò aveva cancellato con un tratto di penna quel nome. Già allora c’era Vincenzo Virga a capo della mafia trapanese, e Virga, mentre Rostagno scriveva quegli appunti, che forse gli dovevano servire per una nuova trasmissione da mandare in onda a Rtc, aveva già ricevuto l’ordine di ucciderlo.
Il processo riprenderà l’1 dicembre con l’intervento delle parti civili; 15 dicembre e 16 gennaio 2018 parleranno le difese; il 19 febbraio 2018 le repliche e la sentenza.
Tratto da: liberainformazione.org