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dalla chiesa carlo alberto 60035 anni fa la strage di via Carini in cui morirono il generale, la moglie e l’agente di scorta
di Miriam Cuccu
Cento giorni furono più che sufficienti per comprendere che il neo prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa avrebbe rivoltato Palermo come un calzino. E che non avrebbe avuto pietà per le reciproche contaminazioni tra mafia e politica che vedevano la Democrazia Cristiana al primo posto tra i partiti più inquinati da Cosa nostra. Un assassinio, quello del generale che combattè Brigate Rosse e famiglie mafiose, consumato il 3 settembre 1982, nel quale morirono anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.
Che dalla Chiesa fosse uomo di Stato tutto d’un pezzo, in Sicilia si sapeva bene. Già nel 1949, infatti, su sua esplicita richiesta arriva a Corleone, in piena riorganizzazione della mafia e con il movimento separatista ancora forte. E’ qui che dalla Chiesa, da capitano, indaga su 74 omicidi, tra cui quello del sindacalista Placido Rizzotto, indicando Luciano Liggio come il responsabile dell’assassino. Dal ‘66 al ‘73 è nuovamente in Sicilia, e con il grado di colonnello è al comando della legione dei Carabinieri di Palermo. Sono gli anni delle sue prime investigazioni sui rapporti tra mafia e politica, ma anche dell’arresto di boss del calibro di Gerlando Alberti e Frank Coppola. Tra le sue indagini, anche quella sulla misteriosa scomparsa, nel 1970, del giornalista Mauro De Mauro, grazie alla preziosa collaborazione tra Carabinieri e Polizia. Il capo di quest’ultima, a Palermo, è Boris Giuliano, ucciso da Cosa nostra nel 1979.

Nel ‘74, dalla Chiesa è nuovamente al Nord, dove seleziona una decina di ufficiali dell'arma per creare una struttura antiterrorismo con base a Torino. Durante questo primo anno il neo generale cattura Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco delle Brigate Rosse, grazie anche all'infiltrazione di Silvano Girotto, detto anche "frate mitra". Dalla Chiesa riceve quindi dei poteri speciali: viene nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta al terrorismo, una sorta di reparto speciale del ministero dell'interno, creato proprio per contrastare il fenomeno delle Brigate rosse che in quegli anni imperversava, con un riferimento particolare alla ricerca investigativa dei responsabili dell'assassinio di Aldo Moro. Grazie a dalla Chiesa, in questo periodo viene formalizzata la figura giuridica del pentito. Ricorrendo dunque al pentitismo, insieme alle azioni di infiltrazione e spionaggio, il generale riesce ad arrestare gli esecutori materiali degli omicidi di Aldo Moro e della sua scorta, insieme al fermo di centinaia di fiancheggiatori. Lo sguardo di dalla Chiesa si volge poi nuovamente alla Sicilia, ed è all’inizio dell’aprile 1982 che scrive al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini: "La corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la ‘famiglia politica’ più inquinata da contaminazioni mafiose". Un mese dopo è già a Palermo, in qualità di prefetto, per contrastare l’azione di Cosa nostra. Per dalla Chiesa hanno inizio i suoi ultimi cento giorni di vita, nei quali più volte si lamenterà delle promesse mancate da parte dello Stato, che gli aveva garantito poteri speciali per poter operare a Palermo. L’ex generale, però, avrà fino all’ultimo giorno “gli stessi poteri del prefetto di Forlì”, in un clima di pesante e continuo isolamento.

La sera del 3 settembre 1982, Carlo Alberto Dalla Chiesa è seduto al fianco della seconda moglie, Emanuela Setti Carraro - sposata solo poche settimane prima - che guida una A112: in via Carini l'auto viene affiancata da una BMW, a bordo Antonino Madonia e Calogero Ganci (oggi collaboratore di giustizia) che fanno fuoco attraverso il parabrezza con un fucile kalashnikov AK-47. Nello stesso istante l’agente Domenico Russo, nella sua auto, viene ucciso da Pino Greco, a bordo di una motocicletta. Quella sera, sul luogo dell’agguato, qualcuno appende a un muro un lenzuolo con scritto: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. E se è vero che per la morte di dalla Chiesa vengono condannati i killer - Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia, insieme ai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci - e i mandanti interni a Cosa nostra - Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci - a 35 anni dal suo assassinio ancora non si conoscono i nomi di chi, esterno alla mafia, volle e ordinò l’uccisione del generale che aveva promesso all’allora presidente Andreotti di non avere pietà per la sua corrente politica.

Del resto, tracce di un interesse per il quale Cosa nostra fu solo il braccio armato, si ritrovano nelle parole del medico e capomandamento di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, che a Salvatore Aragona, altro medico vicino ai clan, dice senza mezzi termini: “Glielo dovevamo fare questo favore”, parlando dell’omicidio dalla Chiesa, in merito al quale i pentiti Francesco Paolo Anzelmo e Gioacchino Pennino parlarono rispettivamente di “una cosa che era restata fuori” dalla guerra di mafia, e di convergenza di interessi esterni a Cosa nostra. Convergenze che, evidentemente, istruirono qualche “manina” responsabile della sparizione dei documenti contenuti nella cassaforte e nella borsa del generale. La notte tra il 3 e il 4 settembre, infatti, qualcuno si introdusse nell’abitazione del prefetto, svuotando la cassaforte. La chiave fu ritrovata dai familiari solo l’11 settembre, giorno in cui trovarono all’interno solo una scatola, vuota a sua volta. Analogo destino fu riservato alle carte contenute nella borsa, menzionate nel verbale di sopralluogo, redatto la sera dell’attentato. La borsa del generale fu ritrovata - vuota - solo nel 2013, nei sotterranei del Tribunale di Palermo. A 35 anni di distanza dal giorno della strage, ancora non si conoscono nomi e volti di chi si appropriò delle carte di dalla Chiesa. Una delle tante sparizioni che, puntualmente, seguono i delitti eccellenti di cui è macchiata la nostra storia - dall’agenda rossa di Borsellino, ai file nel computer di Falcone, ai documenti dell’agente Agostino - e che ancora sono in attesa di verità.

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