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graviano giuseppe 500di AMDuemila
La strategia stragista di Cosa nostra, inizialmente, non era stata vista con favore dalla ‘Ndrangheta. Se ne iniziò a parlare solo nel 1993, a seguito del pentimento di Dario e Nicola Notargiacomo insieme a Roberto Pagano. A parlarne per primo Franco Pino, ex boss (oggi anche lui collaboratore di giustizia) il quale ha poi raccontato che, una volta appresa la collaborazione dei tre “picciotti”, pentiti di fronte al pm di Catanzaro Stefano Tocci, si pensò a sferrare un attacco contro rappresentanti delle istituzioni. Lo sguardo dei clan si rivolse quindi a Luigi Carnevale, che collaborava con Tocci e al quale doveva essere recapitato dell’esplosivo da innescare a distanza con l’uso di telecomandi. Ma prima del progetto dell’attentato a Carnevale, una bomba fu posta davanti alla casa di un maresciallo, componente della compagnia di Rogliano, “reo” di aver convinto alcuni commercianti a denunciare le estorsioni di cui erano oggetto da parte delle cosche.
L’eliminazione di Carnevale non fu poi mai messa in atto. Poco prima di dare il “via”, infatti, Franco Pino decise di collaborare con la giustizia, facendo ritrovare alle forze dell’ordine i telecomandi che sarebbero dovuti servire per far esplodere la bomba. Disse l’ex boss al pm Leddone, della Direzione nazionale antimafia: “L’esplosivo ed i telecomandi erano pronti, l’uomo incaricato di compiere la missione pure…”.
Dopo il “salto” per divenire collaboratore da parte di Pino - a raccontarlo è un altro pentito, Giuseppe Bonfiglio - le cosche stavano progettando un attentato contro l’ex capomafia “mentre usciva dalla caserma dei carabinieri di Rogliano dove spesso si trovava per rendere dichiarazioni”. Ma anche questo attentato non fu mai posto in essere. Dell’organizzazione è lo stesso Bonfiglio a parlare: “Avevamo sperimentato che accendendo a distanza, attraverso un telecomando comunemente usato per aprire i cancelli, una Fiat Uno a iniezione elettronica potevamo lanciarla senza guidatore, imbottita di esplosivo contro il boss e la sua scorta”.
A testimoniare dei legami a doppio filo tra mafia calabrese e siciliana sono anche i “soggiorni” di alcuni boss di ‘Ndrangheta e Cosa nostra. E’ il caso proprio di Giuseppe Graviano (in foto), destinatario di ordinanza di custodia cautelare in carcere insieme a Mario Santo Filippone, entrambi accusati di essere i mandanti degli omicidi ai danni dei Carabinieri consumati in Calabria nel ‘94. Fu Graviano che, mentre visitava l’altopiano della Sila, pensò ad organizzare un sicuro rifugio per il “capo dei capi” Totò Riina. A raccontare la visita di Graviano è il pentito Nicola Notargiacomo, il quale dichiara che il boss di Brancaccio, nell’estate dell’88, “è anche venuto a farci visita a Cosenza con sua moglie, sua cognata e con Marcello Tutino” e tutti “pernottarono presso l’abitazione di Stefano Bartolomeo sita in Contrada Andreotta”. Oltre a Graviano, in Calabria soggiornarono anche i killer dei corleonesi Pino Marchese, cognato di Leoluca Bagarella, e Giovanni Drago, autore dell’omicidio della madre, della sorella e della zia del pentito Francesco Marino Mannoia. Ma anche i membri delle cosche calabresi furono ospitati, a loro volta, da Graviano in un villaggio turistico in provincia di Palermo, a seguito di un agguato ad Arcavacata.

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