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pipitone tribunale palermodi AMDuemila
Grazie alle sue dichiarazioni sono state riaperte le indagini su sei omicidi. Il pentito Antonino Pipitone, boss di Carini che da mesi collabora con i pm di Palermo, continua a riempire i verbali della Procura di Palermo. Dopo aver svelato i retroscena della duplice lupara bianca di Antonino Failla e Giuseppe Mazzamuto e l’omicidio di Francesco Giambanco, i cui mandanti sarebbero stati i suoi zii Giovan Battista e Vincenzo Pipitone, avrebbe rivelato nuovi particolari sugli omicidi del boss Lino Spatola, di Felice Orlando e di Giampiero Tocco (sequestrato davanti alla figlia di 6 anni e poi assassinato), tanto che i pm Roberto Tartaglia, Annamaria Picozzi e Amelia Luise hanno chiesto al gip la riapertura delle indagini.
Ma Pipitone parla anche degli affari di famiglia, come la gestione delle estorsioni con “i piccoli negozi che non pagavano” per una strategia che era “concordata con i Lo Piccolo”.
Parlando dello zio Vincenzo ha spiegato che “è stato reggente della famiglia, dopo l’arresto di Giovan Battista Pipitone nel 2002. La designazione venne decisa da Salvatore Lo Piccolo, soggetto che mio zio chiamava padrino. Nella qualità di capo famiglia si è occupato delle consuete attività criminali: soprattutto estorsioni, ma non nei confronti dei piccoli esercizi commerciali di proprietà dei nostri paesani, cioé degli originari di Carini. Aveva disponibilità di armi, che erano conservate da Gaspare Pulizzi. Ha avuto frequentazioni e contatti con molti esponenti di Cosa nostra di altri territori: con il dottor Antonino Cinà, con Andrea Adamo di Brancaccio, con Lorenzo Di Maggio di Torretta”. Tra gli affari vi era anche la compravendita di terreni che erano nella zona di Carini, svolgendo delle vere e proprie mediazioni: “Questi soldi entravano nelle casse della famiglia e venivano soprattutto divisi tra i miei zii, Angelo Conigliaro, Vincenzo Vallelunga, Antonino Di Maggio. Quando vi erano introiti significativi, veniva fatto un regalo a Salvatore Lo Piccolo. Noi soldati giovani (come me, Gaspare Pulizzi, Ferdinando Gallina) guadagnavamo al massimo qualche migliaia di ero l’anno, nelle occasioni di festa”. Il collaboratore di giustizia ha anche indicato il gestore della cassa della famiglia di Carini nel cognato dei suoi zii e di suo padre, Antonino Di Maggio (“era un punto di riferimento per le estorsioni, visto che molte persone che dovevano pagare venivano indirizzate da lui”). Di Maggio sarebbe stato in ottimi rapporti anche con i boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, tanto che li avrebbe ospitati durante la latitanza nella sua casa di contrada Piraineto. E proprio lo storico storico boss di San Lorenzo lo avrebbe incaricato di occuparsi della messa a posto delle ditte che si occupavano dei lavori della metropolitana che da Brancaccio doveva arrivare a Carini. “Aveva una contabilità per questa gestione dei lavori - ha concluso l’ex boss - e oltre alla messa a posto, Di Maggio ha fatto partecipate anche alcune sue ditte di fiducia”.

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